In rilievo, Storie giuliesi

Quel giudizio assai pessimo del conte di Longano Gregorio de Filippis Delfico su Giulianova.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 21
di Sandro Galantini*
Duro, impietoso, draconiano. Lo era stato nei confronti di Giulianova, presa a riferimento in una sua analisi del 18 dicembre 1833 sugli assetti produttivi dell’Abruzzo, il conte di Longano Gregorio de Filippis Delfico che, sposando nel 1820 Marina Delfico, al proprio aveva aggiunto l’illustre cognome della moglie. Pubblicato su “Il Progresso”, l’autorevole rivista napoletana fondata da Giuseppe Ricciardi, e ripreso dal “Bollettino di notizie statistiche”, l’acuminato intervento del versatile gentiluomo, napoletano di nascita e teramano di adozione, recava di Giulianova, nella comparazione con il vicino Stato Pontificio, un’immagine assai negativa. Tratti caratterizzanti, infatti, erano quelli di una città dirupata nell’«indigenza» e nella «meschinità», con «squallore di campagne», «rustichezza d’abitazioni» e «marina deserta». Invece oltre confine, nella marchigiana San Benedetto del Tronto, «regolarità e comodo di fabbriche» in una cornice ingentilita da «giardini d’aranci e limoni». Insomma, a nord del Tronto una sorta di Eden dove gusto e bellezza fanno il paio con la vivacità imprenditoriale degli abitanti ed una certa opulenza. A sud, viceversa, brutture e indolenze per quanto Giulianova, località marittima al pari di San Benedetto, come il vicino centro marchigiano disponesse di «clima e terra e mezzi di traffico favorevoli». Era davvero così? In parte. Certamente il territorio marchigiano rispetto all’Abruzzo era più sensibile all’innovazione. E la stessa San Benedetto, che già a fine ‘700 aveva programmato lo sviluppo della sua marina con il piano regolatore ante litteram di Luigi Paglialunga, stava ultimando il suo teatro Concordia e disponeva di comodi alberghi. Tuttavia Giulianova non era, come indicato dal conte di Longano, la quintessenza dello squallore e dell’immobilismo. Il viaggiatore inglese Richard Keppel Craven nel 1831, vedendo le «torri e le sue cupole al di sopra di recinti di alberi e campi», aveva detto di Giulianova che era una «piacevole impressione agli occhi». E nello stesso anno Francesco Gandini, pur giudicando gli abitanti del litorale teramano «molto incolti e selvaggi», tuttavia li riconosceva «assai laboriosi» registrando oltretutto come nel territorio si raccogliessero «grani più del dovuto» e riuscissero «assai bene» la coltura della vite, del lino e del tabacco. Quanto all’attività economica, non mancavano esempi di abilità imprenditoriale ed attivismo. C’era la raffinata e richiestissima seta organzina del canonico Biagio Trifoni; la fabbrica di cordami da pesca di Antonio Capanna premiata nel 1830 con medaglia d’argento. Ma c’erano soprattutto gli stabilimenti industriali impiantati da Vincenzo Comi che esportavano liquirizia e cremore di tartaro nel Regno e all’estero assicurando al figlio Riccardo entrate di tutto rispetto. Le stesse che il nostro conte di Longano, gestendo dal 1820 le vaste tenute di Montesilvano della moglie, stava triplicando attraverso contratti capestro con i coloni e prestiti al 12% con ipoteca sui campi dei richiedenti.
* Storico e Giornalista
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