Giulianova. Quando Cologna spiaggia era di Giulianova

di Ottavio Di Stanislao*

Antica mappa di Cologna spiaggia e Giulianova

Chi non ha mai avuto l’impressione che gli abitanti di Cologna si sentano più “vicini” a Giulianova che a Roseto? Tale sensazione ha un solido fondamento storico in quanto fino al 1806 il villaggio di Cologna, con il territorio fino al Borsacchio, apparteneva all’università di Giulianova. Con l’avvento del governo filo-francese di Giuseppe Bonaparte si introdussero molteplici riforme tra le quali quella delle circoscrizioni giudiziarie e di conseguenza delle università. Uno dei criteri seguiti per riformare le circoscrizioni territoriali fu quello di evitare che queste fossero attraversati da fiumi, che non era possibile guadare per gran parte dell’anno e che costituivano una pesante limitazione per la mobilità, attesa l’assoluta mancanza di ponti che saranno realizzati solamente dopo l’Unità con il passaggio della ferrovia litoranea. Il territorio dell’antica università di Giulianova, attraversato dal fiume Tordino, costituiva quindi una fattispecie tipica da sottoporre a riforma. D’altronde gli inconvenienti erano reali. Ecco una dichiarazione giurata di 24 naturali di Cologna, raccolta in un atto notarile rogato dal notaio Altobrando De Paulis Fedele, nel 1805, conservata fra gli Atti dei notai dell’Archivio di Stato di Teramo. «… asseriscono ch’essendo essi naturali della villa di Cologna e non avendo un mulino al proprio tenimento sono nella necessità di andare a molinare li loro grani ne mulini della Badia di Mosciano, dell’arcipretura di Giulianova e della camera Allodiale che sono siti di la dal fiume Tordino il quale nel corso dell’inverno e della primavera porta l’acqua in quantità in modo tale ch’essi costituiti più volte hanno perduto le farine ed anche qualche animale da soma col rischio anche della propria vita, anzi vari concittadini sono periti in detto fiume in occasione di passaggio per li loro rispettivi affari in Giulianova e in Mosciano; soggiungendo inoltre che in tempo dell’esistenza delle semine de’ risi l’acqua non solo era sufficiente per animazione de’ suddetti mulini di la dal fiume, ma era esuberante ancora per l’irrigamento di più centinaia di tomolate di terreno nel loro tenimento ch’esiste alla parte opposta e nel corso del fiume mai han (sic) mancato acqua anche in tempo di siccità».

La pianta allegata, proveniente dal Fondo Intendenza francese dell’Archivio di Stato, già da me pubblicata proprio nell’articolo sul bicentenario della riforma amministrativa e sulle ripercussioni per il nostro territorio (Rivista Madonna dello Splendore 2006), in particolare riportata anche nella copertina de “La battaglia del riso” di Giacomo De Iuliis, del 2014, illustra esaurientemente la dichiarazione giurata riportata. Disegnata da Carlo Forti, era allegata alla richiesta del 1807 di costruzione di un mulino da parte di Biagio De Bartolomei, notabile giuliese affittuario del beneficio di S. Salvatore a Bozzino. Si vedono i mulini sul lato nord del Tordino e il canale delle risiere che portava parte delle acque del fiume, costeggiando il percorso su cui dopo qualche anno verrà realizzata la consolare, fino al Borsacchio, in modo da poter allagare il territorio adiacente per la coltivazione del riso. Si vede anche l’antico percorso che da Cologna portava al Tordino all’altezza della masseria Muzi, abitualmente usato per raggiungere Giulianova.
Con la predetta riforma Cologna con il suo territorio fu aggregata a Montepagano, mentre a Giulianova fu “riunita” l’università di Montone che si oppose strenuamente a tale provvedimento ma non riuscì a conservare l’autonomia, finendo per esser compresa nel comune di Mosciano. Ma questa è un’altra storia …
*direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA. LO STEMMA MISTERIOSO DI PIAZZA BUOZZI

di Ottavio Di Stanislao*
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Stemma di Piazza Buozzi Giulianova

La compianta professoressa Giovanna Manetta, da poco scomparsa, aveva affermato (Albero genealogico della famiglia Acquaviva d’Aragona) che questo stemma fosse quello originariamente apposto sull’antica e vicina Porta Marina. Io ho invece dimostrato, grazie alla minuziosa descrizione di Angelo Antonio De Bartolomi, che lo stemma di Porta Maria è quello oggi sulla facciata di Casa Immacolata.
Dall’osservazione attenta dello stemma di piazza Buozzi emergono questi elementi: Lo scudo è del tipo gotico antico inclinato, con una sottile bordura perimetrale. È attraversato da una banda contro merlata alla guelfa, accompagnata in capo e in punta da una stella a 6 raggi. L’elmo è posto sopra lo scudo con pieno profilo verso sinistra. Tale posizione, secondo gli araldisti, è riservata agli stemmi dei figli naturali. Dalla cima dal cercine dell’elmo, con valore di ornamento esteriore, partono quattro svolazzi detti lambrecchini. Il cimiero è la figura araldica, usualmente tratta dai contenuti dello scudo, posta sulla cima dell’elmo. Nel nostro caso la composizione non è in sintonia con le stelle e la banda contro merlata. Pare il busto di un guerriero col braccio sinistro, che doveva essere sporgente, troncato e quello destro appoggiato sul fianco dal quale fuoriesce un cartiglio dove è leggibile una parte del motto araldico della dinastia: “PICE…FINEM”. Pertanto ci sembra di poter escludere che si trattasse di uno stemma acquaviviano. La casa in cui è posto era una pertinenza del palazzo ducale posto sull’altro lato della piazza e nell’Ottocento era chiamata la vecchia taverna ducale. Fu acquistata dagli ultimi discendenti degli Acquaviva dalla famiglia dei nonni materni dell’attuale proprietaria nei primi decenni del secolo scorso.
Potrebbe trattarsi dello stemma di uno dei primi governatori o comunque di un alto funzionario dell’amministrazione feudale. Per la verità lo stemma parrebbe essere della antichissima famiglia lombarda degli Sfodrati. E un rapporto fra gli Sfondrati e gli Acquaviva esiste! Niccolò Sfondrati e Ottavio Acquaviva erano accomunati, sulla scia dell’insegnamento di Carlo Borromeo, dalla volontà di applicare rigorosamente la riforma cattolica sancita nel concilio tridentino. Nicolò Sfondrati, divenuto papa Gregorio XIV, nel 1590 nominò Ottavio Acquaviva suo maggiordomo, per crearlo cardinale subito dopo. Personaggio prestigioso e di grande influenza Ottavio Acquaviva ebbe un peso notevole nei quattro conclavi cui partecipò all’inizio del ‘600. Successivamente fu arcivescovo di Napoli, dove si distinse oltre che per lo zelo nell’applicare la riforma tridentina, per l’impegno che profuse a favore dei poveri specie nella carestia del 1607, durante la quale fece giungere duecentosettanta navi, cariche di circa 730.000 tomoli di grano. Inoltre per sottrarre i meno abbienti all’usura potenziò il Monte di Pietà con un suo contributo di 20.000 ducati. Per cui quando l’arciprete di S. Flaviano si lamentava con il vescovo in visita pastorale perché della pingue rendita poteva beneficiare solo di 100 ducati perché il cardinale Ottavio “si piglia tutto il resto del intrate che arriva alla quantità di mille et più ducati di regno ogn’anno”, possiamo essere tranquilli che il danaro sottratto all’arcipretura di Giulianova era stato usato a buon fine. Da segnalare inoltre che i cardinali della famiglia Sfondrati e lo stesso Niccolò, come pure i cardinali della famiglia Acquaviva furono titolari di Santa Cecilia, una delle più antiche e prestigiose chiese di Roma.
Allo stato degli studi manca però un riscontro diretto per attribuire lo stemma di piazza Buozzi alla famiglia Sfondrati.
*direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA. DAL “MONTE” AL BELVEDERE

di Ottavio Di Stanislao*
La sistemazione del “Monte”, come allora veniva chiamato, a piazza del Belvedere comportò moltissimi anni. Fin da 1838, vista la penuria di risorse finanziarie da parte del comune, diversi proprietari avevano preso l’iniziativa di una sottoscrizione volontaria per la “formazione e livellazione della piazza innanzi la Porta da Piedi e per il riempimento del burrone che guarda a sinistra di detta porta, verso il mare”. L’intendente apprezzò vivamente l’iniziativa e contribuì alla sottoscrizione offrendo 10 ducati. Una esigenza di decoro urbano, di qualificazione degli spazi pubblici, era presente fin dagli anni quaranta, quando, il decurionato sanzionò come “inconcedibile” il pomerio esterno perché si voleva creare un’ampia strada che circondasse la città con ai margini un percorso pedonale alberato “per comode passeggiate”, e per il lato meridionale era già presente l’intento della realizzazione di un belvedere verso il mare. Nel lato sud delle mura una delibera decurionale del 1846 aveva indotto Riccardo Cerulli a ritenere che fosse stata aperta una porta a fianco della chiesa ancora dedicata a S. Francesco. In realtà solo nel 1876 il consiglio deliberò l’abbattimento della sacrestia della chiesa “per avere una comunicazione diretta e regolare tra il centro del paese e la piazza belvedere”, come suggeriva Gaetano de Bartolomei. Il varco fu realizzato, ma senza la demolizione della sacrestia, come si vede dalla planimetria del 1882. Per questo intervento bisognerà attendere un altro decennio. Quando si deliberò la livellazione della piazza, nel 1873, si pose anche il problema del cadente muro di fronte al comune che comprometteva pesantemente il decoro di tutto la piazza che nella mente degli amministratori doveva divenire il luogo più rappresentativo della città . Ancora una volta era stato il consigliere Gaetano De Bartolomei a convincere il consesso che “… non sarebbe punto decoroso dopo livellata la piazza far rimanere quelle macerie crollanti di fronte ad eleganti palazzine che fan corona alla piazza suddetta”. Ed effettivamente il muro fu ricostruito, con imponente portone, come ampiamente documentato da Sandro Galantini (Giulianova fra storia e memoria). Sempre l’ingegner De Bartolomei chiese ed ottenne la concessione di un tratto di muro “tra il palazzo del sig. Trifoni Biagio e il nuovo muro comunale sul lato nord della piazza belvedere. Tale cessione ha lo scopo di abbellire quel lato (…) si obbligherebbe costruirvi un porticato”. Le domande di appoggiare le fabbriche alla nuova struttura arrivarono subito e vennero assentite alla condizione di iniziare i lavori entro tre anni attenendosi al progetto del De Bartolomei. La costruzione doveva essere “eseguita in perfetta regola d’arte, la muratura deve essere col rivestimento a buoni mattoni sgravinati ed arrotati ed il prospetto, anche se di più proprietari, deve sempre uniformarsi in tutte le sue parti”. Purtroppo ancora oggi si equivoca chiamando il “Portico De Bartolomei”, “Palazzo De Bartolomei”…
*direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA. LAVORI SUL CORSO. DALL’IMBRECCIATURA ALLA PAVIMENTAZIONE (1839-1871)

di Ottavio Di Stanislao*
Gli interventi del 1838 si rivelarono presto inefficaci tanto che a pochi mesi dalla fine dei lavori, il sindaco Massei chiedeva di poter procedere di nuovo all’imbrecciatura del corso perché la strada era di nuovo invasa dal fango. Stessa richiesta riproponeva nell’aprile 1839 chiedendo di essere autorizzato ad imporre un turno di trasporto gratuito di breccia dalla marina a tutti i “possessori di carri a bovi, traini, ed animali da basto”. Ed infatti, da allora, compresa l’inutilità di ricostruire il selciato, si provvedeva a rifare periodicamente il manto di breccia per rendere la strada almeno trafficabile. Le pessime condizioni delle strade della città, non solo del corso, sono testimoniate anche da segnalazioni all’intendente da parte di giudici regi che si succedettero nel giudicato di pace negli anni ’50 dell’Ottocento. Sul finire del 1852 il giudice D’Amore scriveva: “Quando piove le strade interne di questo comune fanno schifo e paura (…) V’à poi la strada del corso che ad ogni leggiera pioggia si rende intraficabile per tanto loto che si addensa”. Quasi un anno dopo il nuovo giudice Guarino denunciava “… intorno alla squallida luridezza delle strade interne di questo paese, per cui gran detrimento ne viene alla pubblica salute, atteso anche il vagamento di porci”. Proprio in quegli anni era però maturata la consapevolezza che occorreva una soluzione radicale prevedendo il completamento della raccolta delle acque e una pavimentazione durevole come quella che si stava realizzando sul corso di Teramo. Fu incaricato l’architetto De Maulo di predisporre il progetto che fu approvato dal decurionato alla fine del 1852. (Purtroppo nel relativo fascicolo del fondo “Intendenza borbonica” dell’Archivio di Stato di Teramo, manca la rappresentazione grafica, c’è solo la stima dei lavori occorrenti con il calcolo della spesa che riportai in ampi stralci in “Giulianova. Le modifiche ottocentesche alla città acquaviviana”). La spesa prevista, quasi 1.500 ducati, non era però nella disponibilità del comune in un solo esercizio, perciò si decise di realizzare intanto il condotto per la raccolta delle acque, opera comunque propedeutica alla pavimentazione della strada. Nel procedere con la fondazione si incontrarono “antiche e profonde fosse da grano”, per cui fu necessario realizzare 39 arcate a mattoni su cui mettere in sicurezza il condotto della larghezza di palmi5,50 a 5 palmi di profondità. Tali opere, non previste nel progetto originario, provocarono un contenzioso con l’appaltatore Giovanni Brattini di Tortoreto che terminò nel 1856, dopo che i lavori eseguiti furono “riconosciuti” da una commissione costituita ad hoc dal Servizio di Acque e Strade. Furono realizzate 26 bocchette, della larghezza di 4 palmi, per raccogliere le acque lungo il corso e altre 6 di maggiore ampiezza per raccogliere le acque dalle strade superiori chiuse da pietre forate. Alla prova dei fatti tali caditoie si rivelarono inefficaci in quanto non riuscivano a captare tutta l’acqua piovana che quindi provocava danni alle botteghe che si affacciavano sulla strada. Si pensò di ovviare sostituendo tre pietre forate con griglie ad inferriata. Ma per la pavimentazione bisognerà aspettare ancora molti anni, per la mancanza delle risorse occorrenti e per l’assenza di maestranze esperte in lavori che richiedevano materiali adeguati e precise cognizioni. Già nel 1856 il sindaco Cavarocchi chiedeva di poter rivolgersi a “un tal Schiavoni di Ascoli adibito anche per la costruzione del corso di Teramo, espertissimo in siffatti lavori”, ma il Consiglio di Intendenza era invece d’avviso che bisognava avvalersi “de muratori del nostro Regno”. Non mancava la consapevolezza dell’indifferibilità dell’opera per cui il decurionato la indicava come assolutamente prioritaria in quanto si trattava della “… principale [strada] per essere più di tutte trafficata per essere la più comoda e più adatta al passaggio e per formare il punto di riunione di questi amministrati …”. In particolare, fino agli anni ’60 del secolo scorso la domenica mattina vi si riversavano tutti i contadini del territorio circostante, che si recavano in paese per fare acquisti nelle innumerevoli botteghe. Comunque la selciatura del corso sarà realizzata tra il 1871 e il 1872 dall’impresa dell’ingegnere Angelo Ara di Ancona con cui il comune aveva stipulato il contratto il I giugno 1871. Fu impiegata pietra di Fano e Pesaro, posta in opera da selcini marchigiani. L’importo dei lavori fu di £ 20.117, 35. Fra copostrada e marciapiedi furono pavimentati 2.157, 85 m2.
Nella foto, dell’Associazione Braga, del 1889, l’estremità nord del corso. Si nota la pavimentazione realizzata nel 1871-72. Altre immagini del corso nei primi decenni del ‘900 e caditoie in pietra e in ghisa ancora visibili fino agli anni ’70 del ‘900.
*direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA. LAVORI SUL CORSO NEI PRIMI DECENNI DELL’OTTOCENTO

di Ottavio Di Stanislao*
La prima notizia di lavori sul corso di Giulianova, come documentato da un carteggio dell’Intendenza francese conservato nell’Archivio di Stato, risale al 1813, quando in occasione del passaggio del re fu rifatta la selciatura. Questa la descrizione dell’ingegnere Carlo Forti: “… ciottoli di fiume battuti sopra un letto di arena fra un compartimento di mattoni in coltello disposti a quadri di sei palmi di lato, e questi divisi in triangoli per mezzo delle diagonali (…) quei lavori erano di una necessità assoluta perché l’antico selciato della strada interna formato di grosse pietre fluviali, senza guide era stato messo sossopra dal passaggio continuo di carriaggi mercantili ed era ridotto una vera sassaia”. Ma nel 1826 era necessario intervenire nuovamente e il decurionato aveva deliberato di rifare il selciato e di eliminare, richiudendole, le fosse esistenti lungo la stessa via dove, per una consuetudine secolare, si era soliti conservare il grano. La strada era ridotta malissimo, non esistendo un condotto per raccogliere le acque meteoriche, queste scendevano impetuosamente dalle strade provenienti dalla parte alta della città, trasportando terra e detriti sulla sede stradale rendendola così difficilmente praticabile. Si era pensato di costruire dei “chiavicotti” in corrispondenza delle vie superiori in modo da condurre le acque piovane al di là del corso.
Queste soluzioni erano criticate aspramente dall’ingegnere Carlo Forti, secondo cui i chiavicotti erano validi per le strade esterne ma non per i centri abitati e riteneva necessario realizzare un collettore lungo tutta la strada. Ciò suscitò le proteste di tutti gli amministratori di Giulianova che si vedevano espropriati della propria autonomia decisionale. Vincenzo Ciafardoni, allora consigliere provinciale, scriveva all’intendente: “… è molto conosciuta la persecuzione del sig. Forti verso il nostro comune, mentre brama di toglierci interamente il commercio e la luce del sole benanche se potesse”. Da premettere che in quegli anni era in atto un aspro contrasto fra gli amministratori di Giulianova e l’ingegnere Carlo Forti per il tracciato della strada Teramo – Giulianova. Il Consiglio d’Intendenza approvò una soluzione di compromesso ordinando una nuova perizia per la selciatura concava e non convessa come già appalto e disponendo che le fosse che non erano al centro della strada potevano esser conservate. I lavori furono eseguiti nel 1828 dall’appaltatore Pasquale Tentarelli ma ben presto le condizioni della strada tornarono ad essere assai critiche. La selciatura sul letto di sabbia era facilmente divelta dal passaggio dei carri e l’assenza di un sistema di raccolta delle acque faceva il resto. Nel 1837 il sindaco Comi chiedeva di poter eseguire nuovamente lavori sulla strada del corso “resa quasi impraticabile”.

Antica mappa di Giulianova

Si riproponevano i chiavicotti in corrispondenza con le strade provenienti dalla parte superiore, il riempimento delle fosse da grano e un manto di ghiaia nella sede stradale. Per abbassare i costi si pensava di ricorre al “braccio pubblico”, obbligando uomini e donne a giornate di lavoro gratuite e i possessori di carri al trasporto gratuito di breccia. Il sindaco nella richiesta dava conto della riserva di alcuni progettisti che ritenevano prioritario la costruzione di un condotto sotto la strada, ma poiché non c’erano le risorse occorrenti era comunque necessario intervenire per migliorare le condizioni della strada. I lavori furono eseguiti fra aprile e luglio 1838 anche su impulso dell’intendente Spaccaforno: non furono realizzati i chiavicotti ma un tratto di condotto nella parte sud dall’incrocio con la strada di S.Francesco alla porta dei cappuccini e su via di porta marina, con tre pozzetti di raccolta; per tutta la lunghezza fu asportato il brecciame di antico deposito, furono ripianate ben 127 fosse da grano, furono realizzati fossi laterali con selciato e guide di mattoni e fu rifatto il manto di ghiaia. Tali lavori provocarono un sensibile abbassamento della sede stradale. Per i lavori di “sterramento e riempimento” delle fosse furono impiegati uomini e donne per 2492 giornate lavorative, per i lavori di fabbrica furono necessari 217 giornate lavorative di muratori come è documentato dal relativo voluminoso fascicolo dell’Intendenza borbonica conservato nell’Archivio di Stato.

direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA. LA DONAZIONE INSPIEGABILE

di Ottavio Di Stanislao*
Il torrione dell’angolo nord-ovest, chiamato la Rocca, nel 1595 venne donato dal duca Alberto ad un suo vassallo, Antonio Lucque di Campli per i servizi resi e per la fedeltà dimostrata.
“Albertus de Acquaviva de Aragonia Dux Hadrie Deciemus et Terami Princeps. Mag.co Antonio Lucque della terra di Campli nostro carissimo i continui serviggi che da molti anni havemo da voi con molta soddisfazione ricevuto (…) ci inducono ad usarvi ogni ufficio di gratitudine, e però avendo con nostro contento inteso che siete per fare abitazione nella nostra Terra di Giulianova (…) havemo pensato donarvi, (…) a voi e vostri successori in perpetuo il nostro torrione detto la Rocca (…) con terreno adiacente (…) nel quale possiate fabbricare a vostro modo ed appoggiare alle muraglie di detta nostra Terra …”.
Tale documento fu esibito nel 1789 in una causa civile (Fondo Regia Udienza Processi Civili dell’Archivio di Stato di Teramo) sostenuta dal notaio Melchiorre De Panicis di Mosciano, abitante in Giulianova proprio nel suddetto torrione e nei locali adiacenti, per confutare l’accusa di averlo usurpato all’università. L’intento del convenuto era dimostrare che tale struttura era entrata nella disponibilità dei privati da circa due secoli, come era avvenuto anche per il torrione di S. Francesco inglobato nell’omonimo convento.

Torrione della Rocca

Torrione della Rocca. Collezione Jonata Di Pietro

Torre del Salinello

La donazione del duca Alberto appare però incongruente da molti punti di vista. Nel momento in cui il signore feudale donava ad un privato cittadino un immobile nato come struttura di difesa della città verrebbe da pensare che evidentemente tale funzione era da ritenersi assolutamente superata. Ma, come documentato da Riccardo Cerulli, nel 1576 il capitano Brancadoro, incaricato proprio da Alberto Acquaviva responsabile della difesa della costa adriatica dal Tronto al Pescara, era stato a Giulianova in ricognizione per ordinare i lavori necessari per tenere in efficienza la cinta muraria. Ciò perché la seconda metà del ‘500 fu caratterizzata dal timore delle incursioni turche e barbaresche, tanto da indurre l’amministrazione vicereale a costruire torri costiere di avvistamento in prossimità delle foci dei fiumi. Furono realizzate nel 1568 lungo tutto il litorale e due di queste a Giulianova, sul Tordino e in prossimità del Salinello. Sempre dal codice cinqucentesco studiato da Cerulli apprendiamo che “i torrioni e le mura erano popolate dalli homini deputati alla guardia de le porte”. Una testimonianza del 1700 ci fa sapere che di notte le tre porte venivano chiuse e le chiavi erano tenute dal governatore, mentre da aprile ad ottobre si faceva la guardia sia alle porte che per le vie della città “per sospetto di turchi”. Da un’altra testimonianza della fine del ‘700 apprendiamo che proprio sul torrione della Rocca, punto più alto della città, nei momenti in cui si temeva potessero avvenire sbarchi di pirati, i cittadini organizzavano turni di sentinella. Le incursioni di pirati barbareschi, provenienti dalle coste settentrionali dell’Africa, genericamente chiamati “turchi”, costituirono un pericolo per le popolazioni rivierasche fino ai primi decenni dell’ottocento. Per tale motivo si sorvegliava il mare e se si avvistavano legni sospetti che si avvicinavano alla riva si dava l’allarme e si correva in spiaggia con le armi da fuoco per impedire lo sbarco. Particolarmente temuta era la possibilità di essere catturati dai pirati e ridotti in schiavitù, eventualità tutt’altro che remota. In uno “stato della scuola primaria del comune di Giulia” del 1809, nella colonna dove era indicata la condizione dei genitori degli scolari, accanto al nome di Alessandro Palestini, figlio di Pietro e Maria Grazia, si trova l’annotazione che lo stesso genitore era “schiavo in Tunisi”.
Per tale motivo, alla fine del ‘700, appariva incoerente e presumibilmente illegittimo il possesso di un bastione da parte di un privato tanto da dare adito al processo riferito. Il contesto descritto e documentato, caratterizzato dalla “paura dei turchi”, che aveva avuto il suo punto più critico proprio nella seconda metà del ‘500, quando le strutture difensive non solo vengono controllate nella loro efficienza, ma se ne costruiscono di nuove, porta a ritenere inspiegabile la donazione del bastione da parte da parte del duca Alberto. Si può però ipotizzare che il signore feudale, a corto di finanze come spesso accadeva anche agli Acquaviva, dovendo compensare il Lucque, abbia esercitato il suo potere insindacabile donando l’immobile, che era nella sua disponibilità, anche se aveva un valore strategico per la difesa della città. Si può anche ipotizzare che “…i continui serviggi che da molti anni havemo da voi con molta soddisfazione ricevuto…”, fossero servizi militari cui i grandi feudatari erano particolarmente sensibili perché disporre di una propria milizia conferiva autorevolezza e potere politico.
Due immagini della Rocca, la seconda dalla collezione di Jonata Di Piero e una foto della torre sul Salinello degli anni’50.
*direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA. IL BASTIONE DI SAN FRANCESCO E L’ANGOLO SUD-OVEST DELLE MURA

di Ottavio Di Stanislao*

All’angolo sud-ovest esisteva il bastione chiamato di S.Francesco, come il rione dove era ubicato, attiguo all’omonimo convento cui alla fine del ‘700 risultava inglobato. Con la soppressione del convento, sancita dalle leggi napoleoniche del 1808, i locali furono destinati a pubbliche funzioni (scuola, gendarmeria, giudicato di pace, ricevitoria dei demani e, di fatto, in quattro stanze vi si insediò anche il comune). Il torrione per un lungo periodo fu compreso fra i locali adibiti ad abitazione del giudice regio insieme ad alcune stanze a piano terra dell’immobile. Nel 1833 fu preso in considerazione dal consigliere provinciale Angelo Antonio De Bartolomei per destinarlo a carcere circondariale e, per dimostrarne la compatibilità, fece disegnare la planimetria allegata (unica rappresentazione grafica esistente). Come si legge il diametro interno era di 23 palmi (circa sei metri), ed era collegato all’orto che poteva adibirsi a spazio (sbaglio) per l’ora d’aria per i detenuti. Nel 1868 il bastione fu oggetto di un’asta pubblica e dato a censo per un canone annuo di 40 lire.

Le antiche mura Sud-Est

L’anno successivo l’aggiudicatario, Giovanni Trifoni, chiese la cessione di un’area adiacente per realizzarvi un’abitazione ma il Consiglio non acconsentì. Il Trifoni realizzò il suo intento circa dieci anni dopo, perché ancora nel 1878 il bastione era esistente, citato in una delibera consigliare, mentre non è più rappresentato nella planimetria catastale del 1881-82, che al suo posto, all’angolo sud-ovest, riporta la sagoma della civile abitazione evidentemente da poco costruita dal Trifoni.

Nel 1855 fu creata una nuova apertura, nei pressi del bastione di S. Francesco, per favorire la ventilazione nel rione in un periodo in cui imperversava una epidemia di colera. Circa un anno dopo il sindaco Livio De Dominicis rilevava che però si era creato un pericoloso dislivello con il sottostante fossato che occorreva colmare anche per poter usare l’apertura come passo carrabile. Ma i lavori di ricoltamento del fossato e di livellazione si protrarranno per molto tempo. Nell’altra planimetria, del 1861, si vede indicata con la lettera A “La porta del paese detta di S. Francesco” e con la lettera C “Torrione detto Bianco”. La cartolina (proveniente dalla ricchissima collezione di Jonata Di Pietro) mostra la Via delle fiere, costruita sul riempimento del fossato ad ovest delle mura e al centro il torrione “il Bianco”.
* direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA. IL BASTIONE RITROVATO

di Ottavio Di Stanislao*
Sul lato ovest delle mura, a circa 60 metri a sud dalla Rocca, c’è il bastione che nel corso dell’Ottocento era denominato “il Mozzone”. Di tale bastione si era persa memoria, non più rappresentato nella cartografia ufficiale novecentesca. I resti, due metri circa di altezza, con ampi tratti rifatti, per un diametro interno di cinque metri, sono visibili in fondo al viottolo a sinistra della casa della vedova di Enea Chiavaroli su via del Popolo. Il nome lascerebbe intendere che doveva essere ridotto nelle dimensioni rispetto agli altri a seguito di danneggiamento o deterioramento, anche se non era stato mai interessato dai restauri effettuati in vari tratti della cinta muraria nel corso dell’Ottocento.

Le mura antiche di Giulianova lato ovest

Le mura antiche di Giulianova lato ovest

Le mura antiche di Giulianova lato ovest

Nella pianta del 1861, indicato con la lettera M e colorato di azzurro, fu richiesto e concesso a Giuseppe Lallone. Ciò suscitò la protesta di Massimiliano Colantoni, “impiegato telegrafico ritirato in Giulianova” che sosteneva di averlo posseduto da tempo immemorabile “… e siccome in esso vi erano dei grandi buchi, dove ascendevano e discendevano persone, così l’oratore si determinò fare offerta di censimento fin dal 1852 (…) coll’obbligo di rifabbricare (…)”. Ma tale proposta non era stata presa in considerazione.

Le foto dei resti del bastione visti dall’interno e dall’esterno sono del mio grande amico Francesco Trifoni che colgo l’occasione per ringraziare per la sua “assistenza” in questa e in tante altre occasioni. La pianta catastale del 1882, ultima rappresentazione “ufficiale”; particolare della pianta del 1861 allegata alla richiesta di vari tratti del lato ovest da parte di privati (Fondo Prefettura Archivio di Stato Teramo).
* direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA MAGGIO 1817 “…LA MORTE SEGUITA LA SUA GIORNALIERA STRAGGE …I PROPRIETARI HANNO SERRATO IL CUORE AD OGNI ATTO DI PIETA’ …”

di Ottavio Di Stanislao*
Un mese dopo la visita del commissario sanitario, l’intendente inviò a Giulianova Giuseppantonio Massei [proprietario di Teramo, qualche anno dopo consigliere provinciale] per constatare l’esecuzione delle misure di profilassi decise in quella occasione e riferire sull’assistenza che si riusciva a dare ai poveri. L’ospedale era stato spostato fuori dal paese nel convento soppresso dei celestini e le sepolture erano fatte con cura nella chiesa dell’Annunziata lontano dal paese. Il dato preoccupante era invece la mancanza di risorse per poter assistere un’ampia fascia della popolazione che, risparmiata dall’epidemia era però stremata dalla carestia e fatalmente condannata a perire d’inedia. Il documento, importantissimo perché testimonianza diretta di un momento drammatico della storia cittadina ci rivela anche, purtroppo, il cinismo del ceto abbiente: “… neppure vi è stato uno solo che ha voluto offrire un grano”.
“Mosciano, 31 maggio 1817 … ieri (…) mi portai in Giulia per eseguire i di lei ordini. Mi presentai dal sindaco e le prime mie operazioni furono di domandargli la maniera praticata nel tumulamento de cadaveri. Mi disse che fin da primi tempi del cominciamento della mortalità aveva creduto opportuno far costruire dei cavi in una grande chiesa distante circa un miglio a levante dell’abitato [la chiesa dell’Annunziata]. Volli portarmici (…) ed osservai che i cavi erano stati fatti regolarmente, e il rinterramento di essi si eseguiva con moltissima attenzione, per cui trovo impossibile che in Giulia i morti possano nuocere ai vivi, mentre niun alito pestilenziale potrà svilupparsi dai sepolcri.
Mi ritirai in paese, e chiesi conoscere l’amministratore dell’ospedale, che trovai correre a carico del comune. Domandai i conti e da essi rilevai che questo cespite ha la mensile rendita di ducati diciannove e grana venticinque e che questa nel corrente anno non sono sufficienti a far fronte alla giornaliera spesa per sostenere i malati, che in numero vi sono per la quasi generale epidemia che ricorre per cui me ne ha fatto osservare il sindaco nei conti bimestrali del comune, il supplemento, che il detto comune è obbligato ad aggiungere alla rendita dell’ ospedale.
Ho perciò creduto inutile formare il conto di quel cespite potendosi rilevare da conti bimestrali del cassiere.

Foto Archivio Il Museo Archeologico Torrione La Rocca

Volli portarmi a visitare il locale addetto all’ospedale e trovai appena stato da poco temporaneamente trasferito nel soppresso convento dei celestini fuori dall’abitato, ed in aria più elastica, perché più elevato del paese. Vi trovai sessanta malati poveri, dieci che guardavano il letto, i restanti debilitati estremamente ed incapaci di procacciarsi niuna risorsa, per cui la morte seguita la sua giornaliera stragge (sic).
Vi è necessario soccorsi e pronti; ma dove trovarli se tutte le risorse sono esaurite? Cercai al sindaco di sapere il numero dei poverelli superstiti: i mezzi, che usava per farli vivere e quali fondi erano stati messi a disposizione per loro soccorso.
Riseppi:
• che i poveri sono nel numero centosettantadue come della lista che le annetto [La lista era stata compilata il 18 maggio: Stato di tutti i poveri del Comune di Giulia, e comprendeva tre categorie: «Poveri non atti al travaglio, che traggono la sussistenza col pitoccare [mendicare]: 27; poveri che possono adattarsi a lavori pubblici:80; Impotenti i quali non possono sussistere che coll’elemosina:65»;
• Che la elemosina era incominciata dal giorno 4 spirante maggio;
• Che questa davasi in una giornaliera zuppa di legumi, o pasta; ed in un qualche grano di pane, e poco olio e sale per far condire le foglie che i più robusti possono procurarsi nelle campagne;
• Che ai poveri malati si era assegnato grana dieci per ciascuno;
• Che aveva ricevuta la somma di ducati 186:58 sulle rivalute delle forniture, ma che questa era alla fine , né altri mezzi poteva egli il sindaco poteva far sussistere di vantaggio i rimanenti poverelli fin’ ora salvati dalla fame.
…richiesi al sindaco se aveva altre risorse da indicarmi e se poteva niente sperarsi dalla compassione de’ proprietari.
Per il primo mi ha risposto esservi molte significatorie [documenti fiscali attestanti la posizione debitoria di passati amministratori] di conseguenza contro diversi proprietari del comune per le loro gestioni tenute. Se ne annette una copia con la prevenzione che per riscuoterle vi bisogna costanza e fermezza, giacché le premure del sindaco finora fatte e le minacce sono riuscite infruttuose.
Per il secondo mi ha protestato che per quante fossero state le premure fatte ai proprietari questi hanno serrato il loro cuore ad ogni atto di pietà tendente al sollievo del suo simile e che neppure vi è stato un solo che ha voluto offrire un grano. Per altro le malattie, pare che in Giulia vadino cessando, almeno cambiano la ferocità degenerando quasi tutte in terzane [febbre che compare a giorni alterni]. Se non mancassero i soccorsi nell’ospedale ed ai poveri miserabili svanirebbe all’intutto la luttuosa scena di vedersi rapire dalla morte tante braccia troppo necessarie per i nostri campi.
Giuseppantonio Massei
*direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GLI STEMMI ACQUAVIVIANI DI GIULIANOVA (IGNORATI)

di Ottavio Di Stanislao*
Lo stemma acquaviviano era apposto sui bastioni e su Porta Marina. Purtroppo quelli dei bastioni sono andati perduti. L’ultimo, come si vede nelle foto dei primi anni del ‘900, e come ricordava Cerulli, “sparì” dalla Rocca negli anni confusi del secondo conflitto mondiale, quando il bastione fu capitozzato e restaurato privo della cinta merlata. Dello stemma di Porta Marina esiste però una minuziosa descrizione di Angelo Antonio De Bartolomei: “Sovrasta l’iscrizione lo stemma Acquaviva così formato: un leone sedente che in posizione verticale, al posto della criniera, si muta in un capitello di colonna sopra al quale mezzo drago alato solleva la sua testa. In prospetto scolpito in un sasso informe tondeggiante si vede il leone rampante degli Acquaviva senza alcun ornato. Il monumento ha sui fianchi due festoni di frutti e fiori.” Grazie a tale descrizione è possibile identificare lo stemma di Porta Marina con quello che oggi è sulla facciata di Casa Maria Immacolata.
Altro stemma acquaviviano finora ignorato è apposto sulla facciata,in via Nazario Sauro, della casa del compianto dottor Giuseppe Moruzzi, indimenticabile medico di famiglia a Giulianova per oltre mezzo secolo. Ho avuto conferma di ciò dal nipote, avv. Giuseppe Malignano Stuart, il quale, fin da bambino, aveva appreso che il nonno aveva comprato lo stemma in pietra da “Marrie lu barvire”, cioè Mario D’Ottavio, barbiere con salone sul corso, di fronte a casa Braga, poi trasformato in negozio di antiquariato, e che si trattava effettivamente di uno stemma della famiglia Acquaviva proveniente dal palazzo ducale.
Nella sacrestia della chiesa di S. Flaviano, sulla parete adiacente al lato sud-ovest dell’ottagono, sovrastante un battistero e una lapide murata vi è un altro stemma acquaviviano finora mai preso in considerazione.

Stemma Giulianova Acquaviva

Stemma Giulianova Acquaviva

Stemma Giulianova Acquaviva

Stemma Giulianova Acquaviva

La lapide è un omaggio dell’arciprete dell’epoca, il canonico ascolano Torrione de Turre, al signore feudale che lo aveva beneficiato, il duca Giovanni Girolamo II, titolare del patronato della “insigne chiesa collegiata di S. Flaviano”.
D.[eo] O.[ptimo] M.[assimo] Ill.mo Ecc.mo Signor Duca Giovanni Girolamo II De Acquaviva Per devozione ed ossequio Torrione De Turre Ascolano Nell’anno II del suo arcipresbitorato pose 1692.
Dall’aprile 1479, alla nobile famiglia Acquaviva fu concesso dal re il privilegio di aggiungere al cognome il predicato d’Aragona e di inquartate nello stemma le insegne reali. Così lo stemma, uno scudo semipartito troncato, timbrato da corona marchesale stilizzata, risalente al 1692, riunisce i simboli araldici del privilegio reale D’Aragona, con le armi della famiglia Acquaviva e della famiglia Spinelli da cui proveniva la moglie di Giangirolamo, Eleonora. Infatti nella sezione superiore, a sinistra sono rappresentati una H con in mezzo una I (Gerusalemme), le fasce d’Ungheria e i gigli angioini; a destra il leone rampante degli Acquaviva, la parte in basso dovrebbe rappresentare l’arma aragonese “d’oro a quattro pali di rosso”, mentre al centro l’aquila tiene uno scudetto sormontato da una corona con fascia caricata di tre stelle di sei punte (stemma della famiglia Spinelli).
Giangirolamo II (Giulianova 1663-Roma 1709), figlio di Giosia III e di Francesca Caracciolo, XV duca di Atri, fedele alla corona spagnola contrastò l’invasione austriaca difendendo la piazzaforte di Pescara. Costretto alla resa riparò a Roma. Fratello del cardinale Francesco e padre del cardinale Troiano protagonisti di primo piano della politica europea della prima metà del ‘700.
Giangirolamo II aveva i seguenti titoli (maggio 1686): Duca d’Atri, Principe di Teramo, Marchese d’Acquaviva e di Bitonto, Conte di Giulia e di Gioia, Marchese d’Arena.
* direttore dell’Archivio di Stato di Teramo