Giulianova. Il tesoro di Terravecchia

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 26.
di Sandro Galantini*
Uno scrigno pieno zeppo di tesori archeologici. La zona chiamata un tempo Terravecchia, compresa tra la chiesa dell’Annunziata, il bivio Bellocchio e l’area di via Gramsci nei pressi del cimitero, ha infatti restituito nel corso dei secoli reperti e testimonianze del passato remoto di Giulianova. D’altronde la sua superficie era disseminata di vestigia. Lo avevano detto, tra i quali Filippo Cluverio nella sua Italia antiqua uscita postuma nel 1624, tutti coloro che per varie ragioni erano venuti in città. Inclusa la celebre scrittrice Mariana Starke nella sua guida del 1820 (Travels in Europe) che rinvigoriva l’interesse nei confronti del centro romano di Castrum Novum su cui avrebbero scritto, rispettivamente nel 1826 e nel 1829, l’elvetico-inglese John Antony Cramer, docente ad Oxford, e il tedesco Konrad Mannert.
Proprio nel primo ventennio dell’Ottocento si assiste ad una serie di scoperte dovute per gran parte a lavori agricoli.
Così nell’ottobre 1815, allorché il sarto Giuseppe Cornice, impegnato nel dissodamento di un suo terreno, portava casualmente alla luce i resti di un tempio con diverse colonne, alcune con base in travertino. Due mesi dopo altro ritrovamento sempre per lavori di dissodamento in un terreno di Terravecchia. Il cappellano della chiesa dell’Annunziata, Francesco Saverio De Antoniis, entrava in possesso, tramite alcuni coloni, di nove monete antiche «de’ medi tempi», cinque in metallo e quattro d’argento, che davano luogo alla sorveglianza archeologica da parte di Giuseppe Albi su designazione di Michele Arditi, direttore generale dei dei Reali Musei e degli scavi di antichità del Regno.
Ma altre ancora saranno le scoperte, delle quali si dirà nei prossimi giorni.
Buona domenica delle Palme.
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Giulianova. Muracche o sarracenesche, queste opere sconosciute

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 25.
di Sandro Galantini*
Muracche o sarracenesche. Così erano chiamati a Giulianova gli avanzi dei sepolcri romani a mattoni del tipo a torre, in origine rivestiti di marmo o travertino con statue, decorazioni ed iscrizioni, che sorgevano ai lati della Salaria interna da Castrum Novum a Roma per Interamna (Teramo). Su quei resti, parte di una necropoli riferibile al centro romano e tuttora visibili nei pressi di una casa vicino al bivio per via Cupa dalla Ss. 80, era fiorita in tempi remoti una leggenda che, raccolta dallo studioso peligno Giovanni Pansa in un suo saggio pubblicato sulla “Rassegna Abruzzese” nel 1899, dimostrava come l’epopea carolingia si fosse diffusa qui come nel resto dell’Abruzzo. Secondo la tradizione questi resti, un tempo più numerosi e posti a 2-300 metri gli uni dagli altri, erano i passi del gigante Orlando che di giorno arava i suoi campi giuliesi per far ritorno a Roma la sera.
A dare rilievo nazionale alle muracche di Giulianova ed alla storia del gigante Orlando sarebbe stato, con il libro Saggi di letteratura popolare stampato nel 1913, il pisano Alessandro D’Ancona, scrittore, critico letterario, politico e autorevole studioso di tradizioni popolari, nella persuasione che leggende e tradizioni fossero il nesso stretto tra la letteratura di un popolo e la sua storia nazionale.



Giulianova. 1855, la sommossa contro l’industriale Camillo Massei.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 24.
di Sandro Galantini*
Ogni epidemia crea inevitabilmente paura. Quando nel 1855, dopo quello asiatico del 1837, il colera dal sud della Francia si diffuse in Italia raggiungendo anche l’Abruzzo, il terrore s’impadronì della popolazione. Un po’ dappertutto si svilupparono agitazioni, a volte innescate per scopi politici, col pretesto che il morbo non fosse un evento naturale bensì intenzionalmente sparso da “untori” al soldo dei “galantuomini”, cioè delle classi dirigenti. Il 29 luglio a Notaresco il farmacista antiborbonico Andrea De Luca, già sospettato nel 1849 di detenzione di armi proibite, aveva accusato un suo rivale di usare veleni. La falsa accusa, dovuta ad una meschina gelosia tra farmacisti, aveva creato il diffuso convincimento di una congiura ai danni della popolazione locale da parte della Commissione sanitaria, di medici, farmacisti e persino del parroco, che si diceva avesse avvelenato le ostie consacrate.
A Giulianova, pure il 29 luglio, circa un centinaio di individui armati di scuri e tagliapietra si era diretto minaccioso, gridando «viva il Re», verso la fabbrica di cremore di tartaro di Camillo Massei ubicata nei pressi dell’attuale bivio Bellocchio. Si era infatti sparsa la voce che l’industriale Massei, di origine teramana ma traferitosi da tempo a Giulianova di cui era stato sindaco dal 1838 al ’40, nascondesse nel suo casino di campagna vicino all’opificio una dozzina di “avvelenatori”. Non solo. Si diceva anche che insieme con il figlio Filippo, II eletto in Comune (cioè assessore), avesse ordinato all’estero un barile di veleno facendo morire di colera due mugnai che si erano rifiutati di versarlo nella macina. Il raid punitivo era stato però interrotto dalla presenza, vicino al fosso di Mustaccio, di un gendarme a cavallo per cui la turba si era dispersa. Non era vero che i Massei, come gli altri “gentiluomini”, ordissero per “attossicare” frutta, sale, zucchero, vini, pozzi e fontane, come il popolo impaurito credeva. Ma che, come in questo caso, qualcosa di vero ci fosse ce lo dice un documento d’archivio marchigiano. Una missiva anonima per il Delegato apostolico di Ascoli riferiva di un intenso traffico illecito di merci tra S. Benedetto del Tronto, iniziato nel 1854 e proseguito nel 1855 nonostante l’epidemia colerica e quindi pericolosissimo, ed il vicino Regno. A capo dell’organizzazione malavitosa era l’insospettabile farmacista sanbenedettese Giuseppe Leti il quale, complici i «primi del paese che le cariche pubbliche occupano» e con la copertura del corrotto Commissario sanitario Aleandro Anelli, ricavava dalla «Contrabandiera società» rilevanti guadagni. Tra le merci spedite oltre Tronto da S. Benedetto, dove nella sola giornata del 13 luglio 1855 il colera aveva falciato 38 persone, anche «rete, e cordaggi ed altri generi» che continuamente Gioacchino Palestini recava, tramite «nascosto imbarco», proprio a Camillo e Filippo Massei.
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Giulianova. Il colera e l’ordine pubblico in città nel 1886

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 23.
di Sandro Galantini*
Tutto iniziò nei primi giorni del gennaio 1886. Le precarie condizioni sanitarie di Tunisi ed Algeri avevano spinto il ministero dell’Interno a decretare le quarantene per le navi giunte in Italia dal litorale nordafricano, poi ammesse solo a seguito di esame medico sugli equipaggi, e in seguito per quelle provenienti dal Brasile dove era deflagrata la febbre gialla. Nonostante ciò il colera si era diffuso in Veneto, in Puglia, a Genova e Cagliari per cui si disposero trattamenti contumaciali per ogni nave approdata in porto. Le misure prese non impedirono tuttavia la diffusione del morbo, veicolato a San Benedetto del Tronto da 5 pescatori. Il primo caso, inizialmente taciuto a Francesco Paolucci, medico “primario” della città, si ebbe il 4 agosto e già il 21 seguente gli infetti erano 30 con 6 decessi sui 53 casi con 27 morti contati nel territorio provinciale. Per cui lo stesso giorno il prefetto di Ascoli Piceno emano’ un’ordinanza che vietava tra l’altro fiere, processioni e feste per evitare assembramenti. A quel punto la paura dell’invasione colerica si diffuse anche a Giulianova dove la sera di domenica 22 agosto si registrò un grave problema di ordine pubblico. Quel 22 agosto 1886, secondo il resoconto datone tre giorni dopo dal “Corriere Abruzzese”, una «turba di spettatori e una lunga fila di monelli con in testa una bandiera e un tromba» si mosse in corteo da Giulianova alta al grido di «viva l’Italia» raggiungendo la stazione per impedire ai passeggeri provenienti dalle Marche di scendere dal treno. A vigilare sulla situazione erano i carabinieri Giuseppe Saggio, Carlo Berlendis, Giulio Agostinelli e Carlo Brusaferro agli ordini del brigadiere Eutrinio Cerceo. La situazione in breve degenero’ perché alcuni, i più esagitati, presero a sassate l’edificio. A quel punto i carabinieri intervennero e due dimostranti, fermati dai militi, ingaggiarono con questi una lotta per sottrarsi al fermo e nella colluttazione un carabiniere venne morso ad una gamba. Se la forza pubblica, aggiungeva il “Corriere Abruzzese”, non si fosse «armata di prudenza – e di somma prudenza», la ribellione «sarebbe stata causa di fatti ben più dolorosi». Grazie al loro intervento i carabinieri, poi insigniti di encomio solenne, erano riusciti dunque a contenere la situazione denunciando cinque persone, rinviate a giudizio e processate a Teramo il 18 novembre, quando il colera era ormai cessato lasciando una lunga scia di lutti (184 morti nella sola S. Benedetto). Due i condannati. Francesco Cerasari, muratore ventiquattrenne, a due mesi di carcere e risarcimento danni. Stessa pena, ma senza risarcimento, per il coetaneo Raffaele Fedele, pure lui muratore. Assolti invece Giuseppe Crocetti, muratore di 29 anni, Giustino Palestini, marinaio ventiseienne, ed Abramo Biancone, 27 anni e pure marinaio.
* Storico e Giornalista
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Quel giudizio assai pessimo del conte di Longano Gregorio de Filippis Delfico su Giulianova.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 21
di Sandro Galantini*
Duro, impietoso, draconiano. Lo era stato nei confronti di Giulianova, presa a riferimento in una sua analisi del 18 dicembre 1833 sugli assetti produttivi dell’Abruzzo, il conte di Longano Gregorio de Filippis Delfico che, sposando nel 1820 Marina Delfico, al proprio aveva aggiunto l’illustre cognome della moglie. Pubblicato su “Il Progresso”, l’autorevole rivista napoletana fondata da Giuseppe Ricciardi, e ripreso dal “Bollettino di notizie statistiche”, l’acuminato intervento del versatile gentiluomo, napoletano di nascita e teramano di adozione, recava di Giulianova, nella comparazione con il vicino Stato Pontificio, un’immagine assai negativa. Tratti caratterizzanti, infatti, erano quelli di una città dirupata nell’«indigenza» e nella «meschinità», con «squallore di campagne», «rustichezza d’abitazioni» e «marina deserta». Invece oltre confine, nella marchigiana San Benedetto del Tronto, «regolarità e comodo di fabbriche» in una cornice ingentilita da «giardini d’aranci e limoni». Insomma, a nord del Tronto una sorta di Eden dove gusto e bellezza fanno il paio con la vivacità imprenditoriale degli abitanti ed una certa opulenza. A sud, viceversa, brutture e indolenze per quanto Giulianova, località marittima al pari di San Benedetto, come il vicino centro marchigiano disponesse di «clima e terra e mezzi di traffico favorevoli». Era davvero così? In parte. Certamente il territorio marchigiano rispetto all’Abruzzo era più sensibile all’innovazione. E la stessa San Benedetto, che già a fine ‘700 aveva programmato lo sviluppo della sua marina con il piano regolatore ante litteram di Luigi Paglialunga, stava ultimando il suo teatro Concordia e disponeva di comodi alberghi. Tuttavia Giulianova non era, come indicato dal conte di Longano, la quintessenza dello squallore e dell’immobilismo. Il viaggiatore inglese Richard Keppel Craven nel 1831, vedendo le «torri e le sue cupole al di sopra di recinti di alberi e campi», aveva detto di Giulianova che era una «piacevole impressione agli occhi». E nello stesso anno Francesco Gandini, pur giudicando gli abitanti del litorale teramano «molto incolti e selvaggi», tuttavia li riconosceva «assai laboriosi» registrando oltretutto come nel territorio si raccogliessero «grani più del dovuto» e riuscissero «assai bene» la coltura della vite, del lino e del tabacco. Quanto all’attività economica, non mancavano esempi di abilità imprenditoriale ed attivismo. C’era la raffinata e richiestissima seta organzina del canonico Biagio Trifoni; la fabbrica di cordami da pesca di Antonio Capanna premiata nel 1830 con medaglia d’argento. Ma c’erano soprattutto gli stabilimenti industriali impiantati da Vincenzo Comi che esportavano liquirizia e cremore di tartaro nel Regno e all’estero assicurando al figlio Riccardo entrate di tutto rispetto. Le stesse che il nostro conte di Longano, gestendo dal 1820 le vaste tenute di Montesilvano della moglie, stava triplicando attraverso contratti capestro con i coloni e prestiti al 12% con ipoteca sui campi dei richiedenti.
* Storico e Giornalista



Giulianova. 16 settembre 1888, quando arrivò la mongolfiera in città

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 20
di Sandro Galantini*
«Fu una bella festa quella di domenica a Giulianova». Esordiva così il “Corriere Abruzzese”, nel numero messo a stampa il 19 settembre 1888, riguardo alle manifestazioni organizzate il 16 settembre precedente per la chiusura della stagione balneare. Grande era stata la soddisfazione di Francesco Maria Ciafardoni, sindaco di Giulianova e presidente del Club cittadino, per i numerosissimi partecipanti. «La popolazione venuta dai dintorni era immensa, quale non vedemmo mai nella spiaggia giuliese», sottolineava infatti il “Corriere Abruzzese” dando ragguaglio degli eventi organizzati meticolosamente. Luminarie e fuochi, la festa da ballo nella sede del Club di palazzo Orsini sul Belvedere folta di «dame e damigelle» e l’apprezzato concerto della banda giuliese diretta dal M° Luigi Leone. Ma a sollecitare maggiormente attenzione, divertimento e «applausi a josa» era stata l’ascensione della mongolfiera. Per Giulianova non si trattava di una novità. Già nel 1860, per la tradizionale festa della Madonna dello Splendore del 21 e 22 aprile, insieme con spari di mortai, cuccagne, fuochi artificiali, concerti, corse di battelli e di cavalli erano stati infatti contemplati anche i «globi aerostatici». Tuttavia la mongolfiera del 16 settembre 1888 era altra cosa. Si trattava infatti di un pallone davvero imponente, alto 25 metri e con una circonferenza massima di 45. Proprietario ne era Cesare Antonucci, un garzone di bottega nato ad Ancona nel 1859 il quale, volendo divenire “aeronauta”, aveva addirittura venduto casa potendo così acquistare, per la ingente somma di 1.400 lire, la mongolfiera di Wever Scott che aveva costituto una delle grandi attrattive dell’ Esposizione Emiliana inaugurata solennemente a Bologna il 7 maggio di quello stesso anno 1888. La prima prova come “aeronauta” l’Antonucci l’aveva fatta proprio nel capoluogo dorico ed era andata bene: la sua mongolfiera, ribattezzata “Stamura” in ossequio alla città nativa, aveva effettuato una breve ascensione libera nel cielo di Ancona volando sino a 150 metri di quota. Era così iniziata la sua attività di “mongolfierista” ma anche di temerario ginnasta giacché l’anconetano, per poter raggranellare qualche soldo in più, aveva accentuato il teatrale divertimento che il pallone già di per sé garantiva con esibizioni di acrobazia salendo sulla fune legata alla mongolfiera o, più spesso, con esercizi effettuati tramite un trapezio fissato al globo.
A parte qualche località in cui l’ accoglienza era stata tiepida, come Macerata, le esibizioni del “mongolfierista” e “ginnasiarca” erano sempre motivo di grande entusiasmo. Così appunto a Giulianova come a Città S. Angelo e a Teramo, dove Cesare Antonucci, descritto come «giovinotto bruno, dai baffetti neri, tutto muscoli» e ormai alla sua ventitreesima ascensione, aveva «tenuta desta la cittadinanza» il 30 settembre e il 1 ottobre 1888 producendo in tutti, diceva il “Corriere Abruzzese”, «una grande emozione, per il grave pericolo che ha corso l’aeronauta».
La difficile esistenza di Cesare Antonucci, sempre in giro per l’Italia, a volte povera di gratificazioni economiche nonostante i grandi rischi, si sarebbe conclusa tragicamente ad Arezzo di qui a cinque anni, il 9 aprile del 1893, per l’urto del suo trapezio con il tetto di una casa.
*Storico e Giornalista



Nicolò Ledwinka e la Regia Scuola Tecnica Industriale di Giulianova

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 19
di Sandro Galantini*
Nicolò Ledwinka, direttore della Scuola tecnica industriale di Giulianova nel 1940, continuava ad esserlo anche nel 1941, anno in cui alla sezione falegnami ed ebanisti veniva aggiunta quella per maestri d’ascia affidata a Gino Menetto, docente di meccanica e macchine marine, fisica, chimica, tecnologia e disegno delle costruzioni navali. Si trattava di una disciplina opportuna per una città a vocazione marinara come Giulianova, e a cui Ledwinka teneva particolarmente. Nato a Zara il 5 dicembre 1899, con il mare Ledwinka aveva infatti avuto sempre un rapporto intenso. Conseguita nella città istriana la maturità tecnica, dopo la guerra si era iscritto ai corsi di ingegneria navale presso l’università di Genova. Nel 1919, allorché la Dalmazia settentrionale veniva assegnata, contro la volontà dell’Italia, al nuovo regno serbo-croato-sloveno, come dirigente zaratino del Gruppo studenti dalmati aveva sottoscritto il manifesto relativo alla grande manifestazione indetta per il 6 maggio di quell’anno a Roma per Spalato italiana, per poi arruolarsi tra i legionari fiumani dove gli era stato assegnato il grado di caporale. Dopo la laurea si era impiegato nel Registro Navale Italiano di cui, rimanendo ispettore, il 5 novembre 1928 veniva nominato agente. E qualche giorno dopo, il 20 novembre, giungeva la nomina a insegnante titolare stabile di tecnologia, meccanica e macchine nella Scuola industriale “P. Bakmaz” della sua Zara, dove sarebbe rimasto per sette anni. Appassionato di costruzioni navali (partecipa nel marzo 1930 al concorso per battelli per pesca meccanica con il progetto di una imbarcazione di 23 metri con motore diesel da 180 cavalli), disegnatore dotato di un certo talento (espone per la prima volta in una manifestazione artistica del ’32), ed iscritto alla società canottieri “Diaspora” di Zara, Ledwinka nel 1933 pubblica il suo primo libro, Remi sull’Adriatico, con prefazione del celebre Filippo Camperio, ammiraglio e fondatore della sezione milanese della Lega Navale di cui sarà presidente.
Nel 1936 lascia Zara per trasferirsi a L’Aquila dove insegna meccanica, macchine e disegno nella Scuola tecnica industriale “T. Patini”, rappresentandola oltretutto al congresso internazionale dell’insegnamento tecnico tenutosi a Roma.
Nel 1937 c’è il salto di qualità con la nomina di direttore a Corridonia, dove rimane sino al 1939. Ed è proprio durante il suo periodo marchigiano che Ledwinka, nel frattempo iscrittosi al Regio Yacht Club Italiano in quanto proprietario di un panfilo di 2 tonnellate armato a Lussingrado, incontra, innamorandosene, una giovane civitanovese, Alda Pagnanini, laureanda all’università di Urbino e supplente di italiano, storia, geografia e cultura fascista alla Scuola secondaria di avviamento professionale della sua città. I due, dopo un breve fidanzamento, si sposano divenendo genitori proprio nel 1940, l’anno in cui entrambi vengono a Giulianova.
E dopo? Al termine della 2^ guerra mondiale Ledwinka (che aggiungerà al cognome il termine Liburnico) è uno dei tanti istriani senza più patria, rimasto fedele alle sue radici. Sicché non sorprende la sua presenza, il 22 maggio 1949 a La Spezia, alla commovente cerimonia della benedizione della bandiera dell’Istria. Tornato all’insegnamento, coltivando la saggistica e l’arte (nel 1955 pubblica il volume Le ali dell’Egeo e cinque anni dopo allestisce a Napoli una sua mostra), è tra i relatori a Roma, dove ha fissato intanto la sua residenza, al 2° Convegno nazionale sui problemi della scuola italiana. Terminata la sua attività di impegnato docente, per la quale viene insignito del titolo di Cavaliere ed Ufficiale al merito della Repubblica, Nicolò Ledwinka si trasferisce a Torre Annunziata operando come libero professionista. Consigliere, dal 1963, del Libero Comune di Zara in esilio, membro della Società Dalmata di Storia Patria, oltre ad alcuni saggi d’indole storica sulla “Rivista Dalmatica” Ledwinka nel 1967 firma il suo terzo libro: Dav il saracino. Un brano di storia dimenticata di Napoli. Sarà, quella, la sua ultima pubblicazione. Di qui a pochi anni Nicolò Ledwinka chiuderà le sue palpebre definitivamente.



Giulianova. La storia della Scuola Industriale “Raffaello Pagliaccetti”

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 18.
di Sandro Galantini*
Sin dalla sua istituzione, avvenuta con Regio decreto del 4 gennaio 1914, la Scuola industriale “R. Pagliaccetti” aveva avuto con l’umbro Giorgio Diamantini un ottimo direttore. Nel 1940, divenuta Scuola tecnica a indirizzo industriale e artigiano con annessa la scuola secondaria di avviamento professionale, disponeva di una sezione falegnami ed ebanisti. Nella “Pagliaccetti” si svolgevano inoltre corsi serali premilitari per radiotelegrafisti dell’esercito e per carpentieri. 63 in totale gli alunni: 25 della scuola tecnica, 38 quelli dei corsi aggiunti. Il farmacista Giulio D’Alessandro presiedeva il consiglio d’amministrazione mentre il corpo docente era composto da Alda Pagnanini (cultura generale), Luigi Branciaroli (matematica, fisica, chimica, elettrotecnica), Orfeo Simoncini (tecnologia e disegno professionale), Tito Marucci (cultura militare), Giulio Nenna (educazione fisica) e don Raffaele Baldassarri, parroco del Lido (religione). L’organigramma annoverava inoltre la ragioniera Raffaella Trifoni, dal 16 aprile 1933 passata da vicesegretaria a segretaria, e il capo officina Giovanni Ferri. Rimane da dire del direttore. Questi era il marito della Pagnanini, l’ingegner Nicolò Ledwinka, nato a Zara nel 1899 e sino all’anno prima direttore della Scuola tecnica industriale “F. Corridoni” di Corridonia, in provincia di Macerata, da cui era stato trasferito appunto a Giulianova forse a causa di un “incidente”. Pare infatti che il 21 aprile del 1939, giorno riservato alle celebrazioni del “natale di Roma”, alcuni studenti della Scuola industriale di Corridonia avessero approfittato della bella giornata di sole per giocare a pallone.
La cosa non fu gradita dal segretario della scuola, che fece accompagnare i ragazzi alla casa del fascio dove vennero schiaffeggiati.
Il direttore Ledwinka, venuto a conoscenza dei fatti, la mattina dopo trasformò in una sorta di ring la segreteria. Ne seguì una sfida a duello tra direttore e segretario fascista. La questione ebbe una tale risonanza da arrivare a Roma. Ed è forse a seguito di quell’episodio che si doveva il traferimento a Giulianova di Ledwinka, una figura estremamente interessante di cui si parlerà diffusamente nella prossima puntata.
* Storico e Giornalista
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Giulianova. L’ospitalità di Carlo Acquaviva d’Aragona nella sua villa detta “La Montagnola”.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI -17.
di Sandro Galantini*
* Storico e Giornalista



Giulianova. 1777, il debito del giuliese Vincenzo Tappatà e le due “paranze”.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 16
Sandro Galantini*
Mare pericolosissimo l’Adriatico nel ‘700. Numerose, infatti, erano ancora le incursioni turche e barbaresche. E poi, come diceva Melchiorre Delfico nel 1784, il litorale aveva poco fondo. Per cui, a causa anche dei divieti per impedire il contrabbando, Delfico diceva che in tutto il litorale abruzzese fossero poche le barche da pesca «in Ortona, Giulia Nova, in S. Vito, in Pescara». E coloro che le possedevano, spesso le vendevano per lo più a marchigiani. Oppure le ipotecavano. Lo fece il 29 settembre 1777 il giuliese Vincenzo Tappatà per due sue paranze a favore di Pietro Amato Palestini, di San Benedetto del Tronto, su un corrispettivo di 200 ducati. La decisione si doveva ad un debito, per somma equivalente, che il giuliese aveva contratto ma mai saldato. Per cui con
«mandato reale e personale
della Regal Corte di Napoli» spedito ad istanza del Cassiere di Giulianova, l’insolvente Tappatà era stato imprigionato nelle «Reggie
Carceri di Teramo». A quel punto era intervenuto il Palestini “prestando” l’aiuto
finanziario per saldare il debito, dietro la stipula di puntuali «patti
e convenzioni da rispettarsi senza eccezione alcuna». Per tornare in libertà, il giuliese era stato quindi costretto
a ipotecare le “parti” a lui spettanti sopra un paio di paranze,
padroneggiate da paron Domenico Pilati di San Benedetto. Il tutto veniva perfezionato con una procura rilasciata a Giuseppe
Tanai.
Davanti al notaio Filippo Merlini, nella casa sanbenedettese di Palestini (con lui ovviamente presente), si erano dunque presentati Tanai e la
moglie di Tappatà, Donna Benedetta. Alla quale venivano consegnati
i 200 ducati «a rischio, pericolo e fortuna» del marito per saldare
il debito.
E affinché Palestini non dovesse «tenere ozioso il suo denaro, e correr rischio e pericolo della disgrazia, che Dio non voglia, delle Paranze e soccombere all’incontro, al peso dell’amministrazione di esse
senza onesto utile», Tanai, in virtù delle piene facoltà concessegli dal
mandato di procura, cedeva a Palestini le “parti” delle paranze spettanti a Tappatà, «in conformità dello stile che già si usa e non altrimenti», e costituendolo legittimo «Amministratore».
Infine Tanai prometteva e si obbligava, a nome di Tappatà, «di far
pescare le dette paranze in questo Stato Pontificio fin all’intiera
sodisfazione del credito di esso Palestini, e che tutti li danni, spese
ed interessi, che possono incedere a dette paranze debbono cader
sempre a danno di esso Tappatà, perché così per patto».
*Storico e Giornalista