Giulianova. 1905, lo scandalo della saccarina nelle gassose della ditta Paolini

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 41.
di Sandro Galantini*
Nel 1906 Giulianova, suo malgrado, giunse alla ribalta nazionale per un episodio la cui portata nemmeno Leopoldo Paolini, che ne fu il primo protagonista, poteva immaginare.
Tutto prese avvio il 13 novembre 1905.
In quel giorno il brigadiere Giuseppe Mastroserio della Guardia di Finanza di Teramo, agli ordini del tenente Cesare Alinei, effettuò un controllo a Giulianova, nello stabilimento di gassose di Lepoldo Paolini. Da Ascoli Piceno era infatti partita una segnalazione relativa ad un quantitativo di saccarina che, formalmente destinato ad una donna giuliese, era stato in realtà consegnato al figlio di Leopoldo Paolini, Luigi, fabbricante di liquori.
Nato nel 1840 da Pasquale e Maria Garbuglia, Leopoldo Paolini, che commerciava anche in vini, era un imprenditore assai noto e stimato in città. Non solo nel 1888 aveva fatto parte, insieme con Francesco Ciafardoni, Domenico Trifoni ed altri, del Comitato promotore per la creazione di una Cantina sociale a Giulianova, ma era stato anche sindaco effettivo della locale Banca mutua popolare.
In effetti gli accertamenti avevano evidenziato presenza di saccarina in alcune bottiglie di gassosa. Per cui, a nulla valendo la giustificazione che non erano destinate al commercio bensì ad uso personale e che la saccarina gli era stata prescritta dal medico per ragioni di salute, Paolini era stato sanzionato non solo per l’adulterazione del prodotto ma anche e soprattutto, violando le leggi doganali, per contrabbando.
Poco tempo dopo quel verbale però il brigadiere Mastroserio era stato trasferito ad Ascoli e il tenente Alinei a Vieste, a comandare la locale tenenza.
Da quel che si vociferava, a volere l’allontanamento dei due era stato, d’intesa con l’intendente di Finanza di Teramo Italo Savoldelli Pedrocchi, addirittura il suzzarese Federico Barbieri, potentissimo direttore capo al ministero delle Finanze della 6^ Divisione, quella riguardante proprio il personale delle fiamme gialle.
Paolini, infatti, era cognato di una figlia di Barbieri e quest’ultimo spesso soggiornava nella stagione dei bagni in una casa dell’imprenditore giuliese, con il quale ovviamente i rapporti erano costanti e di grande cordialità.
Scoppiava così un vero e proprio “caso”. Dopo il giornale politico pisano “L’Elettrico”, che ne aveva fatto oggetto di sapidi commenti, era sceso in campo il deputato calabrese Bruno Larizza. Il quale dopo aver tenuto a Napoli, il 13 maggio 1906, un infuocato comizio a difesa della Guardia di Finanza, nella tornata parlamentare del 22 giugno seguente presentava un’interrogazione, rivolta al ministro delle Finanze Fausto Massimini da poco insediatosi, per conoscere i provvedimenti adottati o da prendere «circa il contrabbando di saccarina da anni tollerato a Giulianova».
Tuttavia l’inchiesta avviata da una apposita Commissione dopo l’interrogazione del parlamentare non aveva evidenziato pressioni da parte del Barbieri, che anzi pare fosse all’oscuro dell’episodio. E, come accertato, si doveva ad una normale rotazione degli incarichi, benché malauguratamente disposta proprio dopo il verbale a Paolini, il traferimento in Puglia del tenente Alinei.
Diverso invece il caso del brigadiere Mastroserio. Per lui l’intendente Savoldelli Pedrocchi aveva disposto il trasferimento trattandosi di sottufficiale ormai inviso nell’ambiente a causa del suo eccessivo zelo.
Per cui la Commissione, mettendo fine al “caso”, aveva rilevato con «sicura coscienza» che non v’era alcuna ragione per supporre che i trasferimenti fossero stati «ispirati da un motivo diverso» o per «illecite intromissioni».
*Storico e Giornalista



Giulianova. La famiglia Acquaviva, i cavalli e la “corsa dei barbari”

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 40.
di Sandro Galantini*
Come nel 1770 riconosceva Giamberardino Delfico, amministratore per conto del re dei beni dell’ormai estinto ceppo primigenio dei duchi d’Atri, la «razza di giumenta è stata antica della casa dei d’Atri Acquaviva» tanto che l’ultimo duca Rodolfo, nutrito della stessa passione degli avi, continuava ad allevare cavalli utilizzando gli spazi del giardino posto a valle del palazzo ducale di Giulianova, sin dal primo ‘500 ornato di piante di arance amare e in seguito di rare essenze floreali.
Motivo di prestigio in quanto univa status aristocratico e carattere guerriero, l’allevamento equino era stato praticato da Giulio Antonio, fondatore di Giulianova, ma più ancora da suo figlio Andrea Matteo III che dopo il 1481 aveva dato inizio ad una sistematica opera di miglioramento delle razze equine presenti nei domini pugliesi (dove si sarebbero affermati gli splendidi Murgese e Lipizzano) ma anche in quelli abruzzesi e a Caserta, feudo tenuto col titolo di conte.
Mecenate e letterato di vaglia, peritissimo nelle armi, straordinariamente versatile, Andrea Matteo III aveva persino scritto un’operetta, De equo, in cui dissertava sulla natura dei cavalli e sulle razze più adatte alla battaglia.
Il matrimonio celebrato nel 1498, per favorire il riallineamento con la corona spagnola, tra il figlio Giovanni Francesco e Dorotea Gonzaga dei conti di Sabbioneta, nipote della regina Isabella del Balzo, aveva messo in rapporto Andrea Matteo III con il marchese di Mantova Francesco II Gonzaga, considerato tra i migliori allevatori d’Europa di cavalli da tiro, da trasporto ma soprattutto da corsa e per tornei.
Non sorprende allora che, giocando astutamente le sue carte per assodare ancor di più i legami tra le due famiglie, il duca d’Atri e signore di Giulianova facesse dono al Gonzaga di alcuni suoi esemplari avvalendosi peraltro dei buoni uffici dell’atriano Giacomo Probi, dal 1496 segretario e stimatissimo consigliere del marchese di Mantova.
Era proprio il Probi a comunicare a Francesco II Gonzaga il 23 giugno 1518, seguendo di un mese o poco più un nuovo palio a Mantova in aggiunta alle tradizionali “corse dei barbari”, l’invio da parte di Andrea Matteo III, in dono, di quattro puledri. Si trattava, nello specifico, di un baio castano col marchio regale, di uno di cinque anni e di un altro chiaro. Il quarto era destinato a Federico, il giovane figlio del marchese di Mantova. Tuttavia i cavalli, avvertiva Giacomo Probi, stavano al momento a Giulianova e sarebbero giunti via terra essendo state avvistate lungo la costa adriatica «certe fuste di Turchi».
Il mondo equestre caro al duca d’Atri non può, a questo punto, che rimandare alla tradizionale “corsa dei barbari” che, al pari di Mantova e di altre realtà, si teneva a Giulianova in occasione dei festeggiamenti tributati alla Madonna dello Splendore. Culto, si sa, caro agli Acquaviva ed allo stesso Andrea Matteo III, tanto da disporre nel suo testamento del 4 novembre 1525 una somma di denaro a «benefitio de santa Maria delo Sbendore de Julia nova».
* Storico e Giornalista



Giulianova. Il Maestro Libero Canzanese e il corallo della famiglia Migliori

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 39.
di Sandro Galantini*
«In silenzio opera e compie sforzi senza piagnucolare sui contrasti. Rifugge gli onori, perché è del concetto che non l’uomo deve emergere ma la patria».
Questo, in rapide ma efficaci pennellate, il ritratto che il giornalista Francesco Manocchia consegnava di Liberato Canzanese, suo amico dai tempi della scuola, ai lettori de “Il Lido estivo”, il numero unico giuliese che aveva stampato il 6 agosto 1939.
In quell’anno Liberato Canzanese aveva attivato a Giulianova una lavorazione-scuola, diremmo oggi un corso professionale, dedicata al corallo, forte di una pluridecennale esperienza acquisita come dipendente dei Migliori.
Lavorando inizialmente con Ernesto, il primo a comprendere le grandi opportunità che il corallo poteva offrire all’espansione dell’arte orafa da egli appresa appena quattordicenne, poi con Cesare Migliori, il quale aveva fatto compiere alla ditta di famiglia fondata nel 1890 il salto di qualità sposando la livornese Gilda Lubrano, rampolla di una cospicua famiglia di corallari, Liberato Canzanese era divenuto in breve tempo un abilissimo tecnico e maestro apprezzato nella lavorazione del polipo marino.
Da “tagliatore”, lavoro assai complesso comportando uno studio attento nel calcolo del verso e della venatura del pezzo da tagliare per ottenere il maggior rendimento, era stato partecipe delle fortune della ditta Migliori venute a consolidarsi grazie alle scaltre relazioni commerciali con le Indie e soprattutto con il Giappone, che nel 1910 aveva rinvenuto intorno alle isole di Formosa, oggi Taywan, nuovi e larghi banchi coralliferi. Per cui dopo il 1910 per le collezioni di punta create nei laboratori Migliori di viale dello Splendore non si sarebbe utilizzato più il corallo livornese bensì il più raffinato “Rosa nipponico”.
Eppure era proprio Livorno la città in cui Liberato Canzanese, congedatosi da Giulianova e dai Migliori, si sarebbe trasferito impiantando una sua ditta operante nel settore dei coralli. E che l’ex tecnico sapesse il fatto suo, avendo anche appreso come trattare con le società di export australiane, nipponiche, cinesi e africane, lo indicano le 60.000 lire di reddito presunto in contestazione calcolato nel 1928 dagli organi tributari dell’epoca per l’imposta sui redditi di ricchezza mobile.
La significativa collocazione di Liberato Canzanese nel ceto imprenditoriale livornese si era ulteriormente rafforzata grazie al matrimonio tra la figlia Giliola e Gaetano Martignetti, appartenente ad una famiglia d’origine milanese che a Livorno aveva costruito le sue fortune come gioiellieri sin dai primi del ‘900. Era nata così, si direbbe ripercorrendo in parallelo la vicenda di Cesare Migliori, la ditta Canzanese-Martignetti i cui meravigliosi monili in corallo sono stati esposti nella bella mostra “Il corallo all’epoca di Modigliani. Lavorazione e commercio del corallo livornese nel Novecento” inaugurata nel Museo civico della città toscana lo scorso 21 gennaio.
* Storico e Giornalista



Giulianova. il porto giuliese e la ceramica di Castelli

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 37.
di Sandro Galantini*
Per secoli Giulianova aveva rappresentato per Castelli, vera capitale della ceramica, un riferimento privilegiato. Lo stesso signore della città, Giosia II Acquaviva d’Aragona, aveva suggellato il suo matrimonio con la cugina Margherita Caterina Ruffo, celebrato il 5 febbraio 1600, con un prezioso piatto (oggi al British Museum) che addirittura avviava la produzione castellana in pasta verde.
Se nel ‘500, avvalendosi dello “scaro” di Giulianova, i Robazza, mercanti di origine bergamasca, avevano assicurato le materie prime (piombo, stagno, terra bianca e zaffera) ai maiolicari castellani, questi ultimi dall’approdo giuliese facevano partire i loro raffinati e richiestissimi manufatti. Come nel
1608, anno in cui abbiamo notizia di un galeone del portoghese Michele Vaez che aveva imbarcato «certi vasi di creta lavorati» destinati a Napoli.
Nel corso del ‘700 gli imbarchi da Giulianova si fanno più frequenti. È forse da Giulianova che partono le maioliche castellane, datate 1740, destinate ad adornare il meraviglioso chiostro del monastero napoletano di S. Chiara. Certamente è dallo “scaro” cittadino che nel 1716 giungono a Castelli piombo, stagno e colore smeraldino trasportati da una nave di Senigallia ed è da qui che si imbarcano le ceramiche castellane per la fiera della città marittima marchigiana, dove nel 1742 rappresentano la parte più rilevante dei prodotti abruzzesi presenti. Non è un caso che più tardi, nel 1760, proprio a Senigallia alcuni castellani daranno vita ad una fabbrica di stoviglie e di terracotta.
Che fossero pielaghi o trabaccoli, oppure tartane, bagarozzi e paranze, in ogni caso erano numerosissime anche nella prima metà dell’Ottocento le imbarcazioni partite da Giulianova per Ancona, Senigallia ed altri porti della Penisola. Come Messina, Castellamare di Stabia, Livorno, Genova, Venezia e Trieste, dove nel 1833 giungono 5 barche con 500 ceste di maioliche.
Naturale, quindi, che a Giulianova, dovendosi provvedere alla sostituzione delle malridotte «rigiole» (cioè delle mattonelle in terracotta) che dal 1784 erano state usate per il rivestimento della cupola di San Flaviano, si pensasse a Castelli. Ma l’idea iniziale di usare mattonelle verniciate era stata accantonata sia per gli alti costi, sia perché si trattava di dare uniformità alla copertura esistente. Sicché nel 1838 si era optato per quelle in semplice terracotta. Per cui, come giustamente ha sostenuto

Ottavio Di Stanislao

nel suo recente libro (La chiesa di San Flaviano a Giulianova, 2016), viene il dubbio su quanto aveva scritto Vincenzo Bindi. E cioè che in origine la cupola di San Flaviano fosse tutta rivestita, con meraviglioso effetto ottico, di mattonelle a smalto di colore azzurro.

* Storico e Giornalista



Giulianova. Il maestro Giuseppe Tritapepe

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 36.
Sandro Galantini*
Il 3 giugno 1928, in occasione della festa dello Statuto, a Teramo si svolse la cerimonia del giuramento dei maestri e la consegna delle tessere dell’ Anif, l’ Associazione nazionale insegnanti fascisti, da parte del segretario provinciale Luigi Ramoni.
Nell’occasione il giuliese Giuseppe Tritapepe venne insignito della medaglia d’oro di benemerenza per gli otto lustri di servizio.
D’altronde il maestro giuliese, come evidenziavano le riviste nazionali “I diritti della scuola” e “La nuova scuola italiana” nel consegnare il resoconto della cerimonia svoltasi a Teramo, per 46 anni, con «ardore di apostolo», aveva dato «ai figli del popolo tutta la sua energia spirituale e il suo grande affetto per la Patria».
Nato a Giulianova il 18 agosto 1863 da Francesco, sarto, e da Anna Domenica Tavani, Giuseppe Tritapepe, su cui ha scritto

Donatella Stacchiotti

nel suo libro Scuola e maestri nella Giulianova dell’Ottocento, aveva conseguito l’abilitazione nel 1882 insegnando dapprima nella città nativa quindi a Colonnella. Primo maestro di Colleranesco nel 1886, anno d’istituzione della locale scuola, era stato poi spostato a Giulianova paese per dirigere quindi, dal 1910, la scuola della Borgata Marina rimanendovi sino al pensionamento, avvenuto proprio nel 1928.

Folta, sebbene modesta negli esiti, la sua produzione letteraria scritta. Dalle poesie (la prima reca la data 29 luglio 1901) alle biografie, iniziando da quella approntata nel 1908 su Settimio Costantini, ex sottosegretario di Stato all’Istruzione. Numerosissimi, poi, gli scritti d’occasione (auguri nuziali e ricordi commemorativi) nonché i dicorsi vari in parte inseriti nel suo volume Palpiti di patrio fervore all’Italica Terra, pubblicato nel 1931 a Giulianova dalla Premiata Arti Grafiche Braga.
Tritapepe, considerato non a torto lo storico insegnante della “Marina”, si sarebbe spento il 22 gennaio 1936 nella sua casa al civico 41 di via Nazario Sauro.
* Storico e Giornalista



Giulianova. Il matrimonio tra Margherita Migliori e l’ufficiale della Regia Marina, Francesco Spinozzi

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 35.
di Sandro Galantini*
«Infiniti e ricchissimi i doni, numerosi e fervidi gli auguri d’ogni parte d’Italia inneggianti alla unione di due fra le più ricche famiglie d’Abruzzo ed alla realizzazione del puro sogno d’amore fra anime elette». Così scriveva il “Corriere Italiano”, nell’edizione 20 febbraio 1924, dando notizia del matrimonio tra Margherita Migliori, giovanissima figlia del gioielliere giuliese Cesare, e del ventitreenne ufficiale di Marina Francesco Spinozzi, il cui omonimo padre, commerciante e proprietario teramano, spesso risiedeva nella bella villa realizzata un decennio prima alla “Marina” di Giulianova.
A dare la misura del peso economico e del prestigio di cui godevano le famiglie dei giovani sposi, soprattutto i Migliori, era la cerimonia nuziale che si era svolta a Roma, nella Cappella privata dell’influentissimo Vincenzo Vannutelli, vescovo di Palestrina e decano dei cardinali, il quale aveva impartito a Margherita e Francesco la benedizione apostolica.
Riferiva il giornale che per il matrimonio della sua prima figlia il commendatore Cesare Migliori aveva voluto offrire, come «imperituro ricordo», un pranzo «a parecchie centinaia di poveri» di Giulianova consegnando altresì a padre Nicola Baldini da Tortoreto, guardiano dei Cappuccini e custode del Santuario Maria Santissima dello Splendore, ben diecimila lire «da servire esclusivamente a tutto ciò che avrà lo scopo nobile di migliorare ed ampliare il fabbricato della Chiesa».
Ma il «lieto avvenire» augurato ai novelli sposi da padre Nicola da Tortoreto, e ribadito dal cardinale Vannutelli che il 24 settembre 1926 era stato ospite dei Migliori a Giulianova, sarebbe durato molto poco. A causa infatti di improvvisa malattia, Francesco Spinozzi alle ore 7.35 del 12 giugno 1927 spirava nell’ospedale di Giulianova in cui era stato ricoverato.
* dedico questo piccolo brano di storia alla cara memoria di Mimì Paolone, gentiluomo d’altri tempi, sempre prodigo di consigli, disponibile, generoso. Oggi è volato in cielo, dove è quiete e luce. Addio caro Mimì, sai che grande era il mio affetto per te, pari alla riconoscenza per tutti i sorrisi affettuosi che ogni volta mi riservavi.
* Storico e Giornalista



Giulianova. “L’Odissea Polacca” il film dell’Istituto Pilecki di Varsavia in onore del 2° Corpo d’Armato Polacco in Italia

Trailer del film “L’Odissea polacca” realizzato dall’Istituto Pilecki di Varsavia e dedicato agli uomini del 2°Corpo polacco.
Nella settimana dedicata alla festa della “Madonna dello Splendore” dovevamo ricordare il 2° Corpo d’Armato polacco nel 75° anniversario della fine della 2° Guerra Mondiale. Speriamo di riproporre quest’estate l’evento.
Questi i nomi dei soldati sposati a Giulianova di cui racconteremo le loro storie.

1. Wawrynezak-Ostronwchi Enrico;
2. Biblis Emiliano;
3. Morycz Teodor;
4. Jakubezyk Boleslau;
5. Jaszewski Alfonso;
6. Kaplanski Wladislaw;
7. Strupczewski Janusz;
8. Kuchanny Edwino;
9. Zadurowicz Vincenzo;
10. Ereminowicz Policarpo;
11. Wegner Giovanni;
12. Werner Stanislao;
13. Wieczor Antonio;
14. Pastuszka Antonio;
15. Zimzoz Giuseppe;
16. Jarmel Valentino;
17. Kocinuski Giovanni;
18. Koltowski Michele;
19. Lewandowski Zygmunt;
20. Retko Biagio Blazey;
21. Czermiak Waclaw;
22. Prokopinth Michele;
23. Kawinski Bruno;
24. Lelow Giuseppe;
25. Byh Simone (Szymon);
26. Morozek Eliszczynski Giuseppe;
Questi militari qui elencati si sposarono a Giulianova nelle parrocchie di San Flaviano e Natività di Maria SS. (alcuni con rito civile anche a Porto Recanati); i matrimoni furono celebrati da don Alberto Di Pietro, don Raffaele Baldassari, Don Celestino Colli e dal cappellano militare Ks. Leon Frankowski che aveva ricevuto l’autorizzazione dai vertici militari del 2° Corpo D’Armata Polacco in Italia o/e dal Procuratore della Repubblica di Teramo.



Giulianova. Anche il mare restituisce pezzi antichi

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 34.
di Sandro Galantini*
A parte il “tesoretto” monetale del 1941, l’ultimo rinvenimento in epoca fascista a Giulianova si era avuto nel 1932.
In quell’anno, mentre erano in corso di ultimazione i lavori per il nuovo tracciato in “variante” della SS 16 (per intenderci l’attuale tratto dell’Adriatica compreso tra la caserma della Polizia stradale e l’incrocio con la statale per Teramo), poco prima del cavalcavia per la chiesa dell’Annunziata vennero rinvenute, ad un metro circa di profondità, sei tombe romane alla cappuccina.
Non era comunque unicamente il sottosuolo a celare i segni del passato antico della città.
Il 4 settembre 1953, infatti, un articolo apparso su “Il Popolo di Roma” dava notizia del rinvenimento, da parte di un motopeschereccio nel tratto di mare davanti a Giulianova, di tre anfore «etrusche». Dalla Direzione Generale dei Beni artistici ed archeologici partiva quindi, il 15 dicembre seguente, una richiesta di informazioni che la Soprintendenza di Chieti, sei giorni dopo, a sua volta inoltrava al locale comando dei Carabinieri. Tuttavia l’Arma giuliese riferiva, con nota informativa del 13 gennaio 1954, come gli accertamenti esperiti non avessero dato alcun esito. Nello stesso atto i Carabinieri precisavano comunque che «il rinvenimento di anfore fittili è frequente da parte dei motopescherecci di Giulianova», lasciando intendere tra le righe come per i pescatori del luogo fosse consuetudine strappare reperti antichi al mare. Destinati, va da sé, ad ornare qualche collezione privata.
* Storico e Giornalista



Giulianova. Nel 1941 la scoperta del “tesoretto” giuliese

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 33.
di Sandro Galanti*
Giulianova, contrada Terravecchia, 1941. Ormai in clima bellico, durante i lavori su un’abitazione viene alla luce quello che a ragione verrà chiamato il “tesoretto” di Giulianova.
Celato in un muro, che lo aveva serbato per oltre cinque secoli, si presenta agli occhi stupiti degli operai un prezioso ripostiglio. Insieme con un ducato del primo periodo del Senato Romano, ci sono infatti ben 168 zecchini (o ducati) di Venezia che coprono un lungo lasso di tempo. L’esemplare più antico risale al tempo del doge Pietro Gradenigo (1289-1311); il più recente al periodo nel quale fu in carica il doge Antonio Venier (1382-1400), epoca cui può essere fatto risalire l’occultamento di questo autentico giacimento.
La scoperta monetale del 1941, la più importante avvenuta a Giulianova (a parte quella del 1829, allorché vennero rinvenute sempre a Terravecchia 1216 monete antiche in argento), faceva il paio con l’altra del 1907 e ambedue testimoniavano i vivaci flussi di scambi con Venezia, regina dell’Adriatico e protagonista di una politica di espansione anche sulla terraferma, nei quali era coinvolta la città medievale di Castel San Flaviano. È probabile che l’ignoto proprietario del “tesoretto” fosse proprio un mercante, uno dei tanti a risiedere nel nucleo urbano della città marittima e portuale di Castel San Flaviano.
* Storico e Giornalista



Giulianova. La scoperta delle gallerie giuliesi

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 32.
di Sandro Galantini*
Il rinvenimento, nel 1929, dell’ennesima iscrizione antica, aveva forse sollecitato alcuni giovani giuliesi ad effettuare una avventurosa ricognizione in una galleria che anni prima, creando curiosità in città, era stata scoperta da un operaio intento a scavare un pozzo nell’aia di una casa colonica sita lungo via XV Ottobre, l’attuale Gramsci, probabilmente nell’area a sud dell’odierno Istituto S. Volto tra le vie Mantegna e fratelli Bandiera, allora non urbanizzata.
Fosse per sincero interesse archeologico, oppure per semplice spirito di avventura con la prospettiva magari di rinvenire qualche “tesoro”, in ogni caso a primavera, reperita la somma necessaria e d’intesa con il proprietario del fondo, gli improvvisati speleologi avevano dato il via all’operazione sui cui esiti ragguagliava il 27 agosto 1929 “Il Messaggero”.
La galleria, come si legge nell’articolo, era posta ad 8 metri di profondità e venne percorsa per 40 metri a sud e 190 verso nord essendo impossibile proseguire oltre a causa di «due frane esistenti dopo le suddette distanze», si ipotizzava avvenute per il cedimento della volta. La galleria, di andamento «tortuoso» e con copertura preminente costituita da volta a botte ed in alcuni tratti da due conci di pietra di tufo «accostati e contrastantisi», aveva una larghezza di circa 80 centimetri ed un’altezza media di 2,40 metri. Il pavimento presentava un selciato regolare. Tra coloro che avevano effettuato l’avventurosa ricognizione, “Il Messaggero” segnalava in particolare un giovane di Città S. Angelo da appena un anno laureatosi in ingegneria a Bologna, Arturo Braga, figlio del giuliese Alfredo, e l’«industriale» Luigi Orsini, figlio di Tiberio. I quali pare avessero persino abbozzato un rudimentale rilievo.
Quel cunicolo, per il quale il giornale invocava l’intervento della Soprintendenza potendo «far scoprire chissà quali cose di valore archeologico e storico», aveva dato luogo all’opinione popolare di un fantasioso tracciato di fuga, ad uso dei duchi Acquaviva, che da Giulianova terminava al fiume Tordino o addirittura, secondo la versione ancora più leggendaria, passando sotto il fiume risaliva ad Atri.
In realtà doveva trattarsi di un tratto dell’adduttore idrico ipogeo, con tratti di camminamento per la manutenzione, che partendo dalla domus sub-urbana con cisterna nel giardino di Casa Maria Immacolata, raggiungeva l’area, romana prima medievale poi, nella zona dell’attuale cimitero. Dove, sulle pendici orientali, sino a qualche anno fa erano ancora visibili i resti di una piccola cisterna scivolata ormai a valle.
* Storico e Giornalista