Giulianova. Pubblichiamo la lettera del prof. Aldo Marroni, Docente emerito di Estetica all’Università “G. d’Annunzio” di Chieti- Pescara, in ricordo dei mai dimenticato suo collega prof. Francesco Tentarelli. Il 7 gennaio 2018, presso l’Ospedale Civile di Teramo “Mazzini”, all’età di 63anni, ci lasciava per sempre Francesco. Noto Dirigente del Servizio Beni e Attività Culturali della Regione Abruzzo, il Prof. Francesco Tentarelli, Laureato in Filosofia e Perfezionamento in Storia dell’Arte, era stato docente di Storia e Filosofia presso i licei scientifici e classici della provincia di Teramo; funzionario responsabile al Museo Archeologico di Teramo; Direttore Tecnico – Scientifico del Polo Museale del Comune di Giulianova; funzionario della Regione Abruzzo come responsabile dell’Agenzia Promozione Culturale di Nereto; corrispondente per l’Abruzzo de “Il Giornale dell’Arte”; funzionario della Regione Abruzzo Responsabile dell’Ufficio Agenzia promozione culturale di Teramo con sedi a Teramo, Nereto, Giulianova e Atri; membro al tavolo di concertazione sui Beni Culturali istituito da Comune di Pescara.
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Lettera a un amico lontano
Caro Francesco,
non avrei mai immaginato di doverti scrivere una lettera, ripensando a tutte le volte in cui ci siamo sentiti per telefono. A proposito, ho ancora il numero del tuo cellulare salvato sul mio smartphone e credo che vi resterà per un bel po’ di tempo. Poiché gli eventi ci hanno negato la possibilità di telefonarci, la forma della lettera mi appare la più adatta a toccare le parti più profonde dell’animo, per far rivivere momenti ormai remoti ed emozioni non affidabili a una fredda elencazione di fatti. Come avrei potuto ricordare a noi due le esperienze politiche e filosofiche, vissute sempre sotto il segno di un’amicizia discreta e nel contempo disseminata di tante complicità, se non inviandoti una lettera? Prima di parlare di filosofia e di impegno politico, devo però ricordare la tua passione per la musica, soprattutto quella rock. Da autodidatta suonavi la chitarra con l’estro di una star internazionale, una sorta (e adesso la sparo grossa!) di Jimi Hendrix tutto per noi. Non posso non riportare alla memoria la tua fedelissima Fender Stratocaster, di cui eri gelosissimo e con cui eseguivi delle svisate irripetibili capaci di mandare tutti in visibilio. Sembravi così preso dal tuo strumento da subire i rimbrotti di tutti perché non eri troppo incline ad accennare brani orecchiabili destinati a scaldare una serata di bisboccia, e, lo dico con molta discrezione, permettere qualche timido approccio (ci siamo capiti!). La tua caratteristica era quella di lasciare tutto a metà, nella forma del frammento, accennavi un tema e poi lo facevi morire. Non capivamo mai cosa volessi suonare. E questo ti metteva nella condizione di essere criticato e ammirato nello stesso tempo. Questo tuo modo d’essere ti ha accompagnato per tutta la vita. Sempre pronto a seguire una pista, sia essa filosofica, artistica o politica, per abbandonarla subito dopo al suo destino, per poi cercarne altre. La tua ironia e autoironia era un leitmotiv sempre presente, esercitate con la leggerezza di chi ha fatto del disincanto e del dubbio l’arma migliore per vincere la opprimente quotidianità. Eri un maestro in quest’arte. La battuta sagace, il motto di spirito, il calembour stavano lì sempre pronti a scattare. Mi viene ora in mente un pomeriggio presenti ad una conferenza di Gianni Vattimo a Teramo. Si parlava di Verità e metodo, opera capitale di Gadamer. Tu intervenisti suggerendo, con una battuta, il nuovo titolo di Carità e metodo per l’opera del grande tedesco,visto l’argomento attorno a cui ruotava la conferenza. Vattimo stette al gioco. Passammo poi la serata insieme a lui, una serata ricca di battute, pettegolezzi accademici e tutto quanto fa vita vissuta. Alla stazione ti regalò i libri sull’Abruzzo ricevuti in dono dagli organizzatori. Ne aveva già troppi e se ne liberò lasciandoli a te in segno di amicizia e ricordo personale. Un altro tuo modo d’essere era la curiosità, quella del ricercatore. Non smetteva mai di ossessionarti (hanno fatto bene i tuoi cari a far incidere sul marmo che adorna la tua sepoltura questo denso concetto di Heidegger: “La grandezza dell’uomo si misura in base a quel che cerca e all’insistenza con cui egli resta alla ricerca”). La volontà di cercare e di sapere ti portò verso la filosofia. Il marxismo prima di tutto, ma un Marx eterodosso, non l’economista, non quello del Capitale, piuttosto il Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Questo spirito di ricerca ti portò fino alla filosofia e da qui a György Lukács, non quello della maturità però, non l’ideologo marxista, ma il giovane Lukács, l’autore de L’anima e le forme scritto sotto l’influenza del proto-esistenzialista danese Kierkegaard. La tua tesi di laurea fu infatti centrata sul tema del tragico nel giovane Lukács. Da qui era derivato anche il tuo vezzo di ficcare, ovunque fosse possibile, un vocabolo tedesco che bene interpretava la sensibilità contemporanea. Sehnsucht questa è la parola di cui subivi il fascino tutto filosofico. Il suo significato molto sfaccettato, (bramosia, desiderio, ma anche nostalgia) sembrava riassumere per te ogni possibile modo di comprendere l’esistenza. Mentre io battevo le strade dell’utopia concreta del marxista eretico Ernst Bloch, tu avevi eletto il giovane Lukács a tua guida spirituale. Questi nostri interessi filosofici ci facevano però vivere l’adesione al Partito Comunista con una qualche sofferenza, perché il nostro era soprattutto un anticapitalismo romantico, nato sotto il segno dello Sturm und Drang, insomma come tempesta e impeto, solo in teoria però. Ricordo con quanto scetticismo partecipammo, invitati dai dirigenti locali, alla scuola di partito delle Frattocchie. Non eravamo mai in aula ad ascoltare i noiosissimi comizi (perché di questo si trattava) tenuti da politici abruzzesi (ci chiedevamo: perché ci hanno mandato a Roma ad ascoltare quello che avremmo potuto ascoltare stando a casa?). Spesso ci rifugiavamo presso la biblioteca della scuola di partito a consultare la rivista teorica Critica marxista. Cosa che ci costò un severo rimprovero da parte della bibliotecaria, una signora dall’accento tedesco, naturalmente alta e bionda, che ci ingiunse di tornare subito nella sala delle riunioni. Per noi non vi era nulla di scontato, scettici fino al midollo tutto andava compreso e filtrato con lo strumento della filosofia. I tempi non erano però quelli giusti, per questo motivo il nostro disagio nei confronti della battaglia politica strettamente intesa cresceva sempre di più. Di nuovo, ci chiedevamo: ma non era stato proprio Togliatti ad inaugurare la rubrica “la battaglia delle idee” sul settimanale Rinascita? Certi discorsi però non passavano. Non ci tirammo indietro, comunque, quando ci fu il colpo di stato in Cile nel lontano 1973, con l’assassinio del presidente socialista Salvador Allende. Tu ti facesti subito promotore di un gruppetto musicale (ricordo il nome: “Victor Jara”) il cui proposito era di far conoscere la sofferenza del popolo cileno sotto la dittatura di Pinochet attraverso la sua musica, soprattutto quella degli Inti-Illimani. Come si dice oggi, tu eri il front man, suonavi la chitarra (quella acustica però) e cantavi, mentre gli altri ti seguivano (alla buona!) con i loro strumenti. Il tutto avveniva in un clima di grande partecipazione popolare e di fiducia nella vittoria della democrazia. Caro Francesco, gli episodi da ricordare sarebbero tantissimi, tutti però in questo momento mi tornano alla memoria in maniera piuttosto sfocata, avvolti in una lattiginosa nebbia mentale. Di un’ultima cosa però devo parlare: la tua formazione artistica. Proprio questa ha forse segnato la parte più importante della tua esistenza. Il tutto parte dall’imprinting ricevuto fin da bambino da una famiglia di artisti ad iniziare da tuo padre Alfonso, apprezzato scultore, le cui opere sono sparse in diverse parti d’Italia. Fui molto impressionato da un suo enorme San Francesco, di cui non ricordo però in quale città si trovi. Mi prese in simpatia quando insieme a te frequentavo il suo laboratorio. Un giorno, vedendomi ammirare una sua bizzarra opera, un singolare totem con in testa un clacson in stile Dada, senza nemmeno che la chiedessi in dono mi disse di prendermela. Non me lo feci dire due volte. La conservo ancora. Molti, vedendola all’ingresso di casa, mi chiedono cosa rappresenti, io rispondo che è una statua con significato apotropaico, generando una qualche perplessità. Tu non saresti stato da meno nella produzione artistica, né di tuo padre né dei tuoi fratelli, già affermati nel mondo dell’arte. La creatività non ti mancava e nemmeno un tuo personalissimo stile. Hai voluto percorrere, però, un’altra strada, non quella creativa, ma quella storico-artistica, sicuramente più idonea alla tua formazione letteraria. D’altra parte per te era facilissimo passare dalla filosofia all’arte. Dopo la laurea ti sei iscritto alla Scuola di perfezionamento in storia dell’arte di Urbino. A quel punto lasciasti il giovane Lukács per gettarti tra le braccia di un nuovo idolo, tra l’altro molto studiato in quegli anni, Martin Heidegger, autore di Essere e tempo. Non era questo il libro destinato a fare da anello di congiunzione tra la filosofia e l’arte, ma il denso scritto L’origine dell’opera d’arte a cui dedicasti la tua tesi di perfezionamento. Questo tuo lavoro fu ritenuto degno di pubblicazione. Uscì un lungo estratto su una rivista dell’Università di Urbino, cosa di cui andavi fierissimo, me lo mostrasti con grande soddisfazione. Quello che più mi sorprendeva in te era la capacità di trovare collegamenti tra fatti artistici tra loro lontanissimi. La tua memoria visiva era prodigiosa. Se ci trovavamo insieme a osservare un quadro o a sfogliare un libro d’arte, notavi subito caratteristiche che a me sfuggivano (d’altra parte lo storico dell’arte eri tu!). Un particolare di un’opera (un piede, una mano), mettiamo di un classico, lo vedevi riapparire in altri quadri, in altri autori di epoche diverse, quasi a immaginare un percorso in grado di classificare momenti e problemi della storia dell’arte sotto un qualche segno unificante. Mi chiedevo, stupito, da dove traessi questa tua capacità. Il fatto è che avevi una profonda conoscenza della storia dell’arte, il che ti permetteva di scorgere ogni elemento peculiare dell’opera, io invece mi soffermavo soprattutto sulla sua importanza per la storia dell’estetica.
Caro Francesco, dopo oltre quarant’anni mi è difficile e, per la verità, anche penoso, far riemergere dalle zone più buie del mio animo le esperienze destinate a segnare la tua vita, così come la mia. Le sto facendo riaffiorare qui con grande rammarico, sapendo che non potrai condividerle con me. Dice il grande saggista francese del Cinquecento Michel de Montaigne: quando c’è la morte non ci siamo noi e quando ci siamo noi non c’è la morte. Questo mancato appuntamento non affievolisce lo sconforto di chi rimane, perché è vero che l’incontro diretto non avviene mai, tuttavia avviene. L’ombra che cancella la vita è entrata nella tua esistenza senza bussare, senza nemmeno chiederti scusa. Tu l’hai incontrata nel momento più esaltante della tua attività di studioso. Finalmente un riconoscimento istituzionale ti aveva offerto la possibilità di dare il meglio di te, nello stesso momento qualcosa di inaspettato ti ha rubato questa opportunità.
Questi pochi e frammentari ricordi di un amico ti giungeranno quando non potrai più leggerli. La lettera partirà lo stesso anche se non arriverà a destinazione.
Il tuo amico di sempre Aldo