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Luca Serianni a San Benedetto del Tronto, presentato il libro “Parola di Dante”

Luca Serianni a San Benedetto del Tronto, presentato il libro “Parola di Dante”

di Manuela Valleriani

 

Si è svoltain una calda seratadi inizio estate, presso la Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto (AP), la presentazione del libro “Parola di Dante”, scritto dal noto linguista e filologo Luca Serianni e pubblicato da Il Mulino edizioni. L’incontro, moderato dai docenti Michele Ortore e Adriana Paoletti, è stato organizzato dalla libreria Nave Cervo e ha visto anche la partecipazione di Lina Lazzari, Assessore alla Cultura del Comune di San Benedetto del Tronto.

Il 2021 è stato l’anno delle celebrazioni dantesche dovute alsettecentenario della scomparsa dell’Alighieri, e tante sono state le pubblicazioni, anche da parte dei cosiddetti ‘addetti ai lavori’, fiorite per rendere omaggio al Sommo poeta e al suo celebre capolavoro, la “Divina Commedia”. Un’opera, scrive il prof. Serianni nell’introduzione al suo saggio, che “non ha mai cessato di rappresentare un serbatoio linguistico dal quale i letterati hanno attinto”, e che nel tempo ha notevolmente alimentato il vocabolario fondamentale del nostro italiano. L’eredità linguistica che Dante ci ha lasciato è fatta di parole ed espressioni dalla storia diversa: Luca Serianni, professore emerito di Storia della lingua italiana all’Università “La Sapienza” di Roma, Accademico della Crusca e dell’Accademia Nazionale dei Lincei, vicepresidente dal 2010 della Società Dante Alighieri, ne ripercorre in questo volume alcuni “assaggi”,guidando sapientemente i lettori – anche non specialisti -ad accostarsi al lessico del genio dantesco e ad un’opera, come la Commedia, che non rappresenta soltanto un esempio insuperato di creazione poetica, ma una fonte viva di lingua e di stile.

Un primo interrogativo posto dallo studioso è: in che misura la lingua usata nella Commedia corrisponde a quella usata davvero da Dante? Il problema nasce dal fattoche non abbiamo autografi danteschi; in compenso c’è una ricca tradizione manoscritta – i manoscritti esistenti sono più di 800 -che si è sviluppata molto precocemente proprio per effetto del grande successo avuto dal celebre capolavoro, senza contare poi il fenomeno della contaminazione da parte dei copisti, che mescolavano rami diversi della tradizione con la memoria personale, spesso labile e imprecisa.

Rispetto all’italiano contemporaneo, la continuità linguistica con il vocabolario dantesco è a volte reale e a volte no: alcune parole usate da Dante resistono infatti nella nostra lingua fino ad oggi, a volte cambiando completamente, a volte solo in parte, il significato. Altre volte è stato Dante stesso a coniare nuove parole, o ad usarle per primo in italiano. Il libro di Serianni ripercorre direzioni ed esempi in questo senso: scopriamo allora che la parola “affetto”, nell’accezione di “inclinazione sentimentale che spinge ad amare e a volere il bene di qualcuno o qualcosa”, è utilizzata con questo stesso significato da Dante nel canto II del Purgatorio, in occasione dell’incontro di Dante personaggio con Casella, ma in un passo del Paradiso (canto XXVI) il poeta utilizza la parola “affetto” con il significato di “passione”, “impulso,” per rappresentare l’ardore di carità dei beati. Anche l’ “affetto” di cui si parla nel celebre canto V dell’Inferno, riguardoalla vicenda di Paolo e Francesca, indica un desiderio, dunque non corrisponde in modo puntuale al significato che questa parola ha nell’italiano contemporaneo. Lo stesso dicasi per “amore” e “amare”, che Dante utilizza sì nel senso di attrazione fisica e sentimentale verso un’altra persona, come lo intendiamo oggi (ad esempio quando parla dell’amore coniugale tra Ulisse e Penelope), ma anche per indicare il sentimento verso un amico – laddove noi parleremmo invece di un “voler bene” e non di “amare” – quando Dante incontra Carlo Martello nel Paradiso: “Assai m’amasti/ e avesti ben onde”(canto VIII, v. 55).Serianni ha sottolineato, inoltre, durante l’incontro pubblico dell’altra sera, che l’uso dantesco della parola “amare” per indicare rapporti di amicizia è perdurato a lungo nella tradizione letteraria, almeno fino all’Ottocento, dato che lo ritroviamo in una lettera scritta da Leopardi al suo amico letterato Pietro Giordani.

Suggestivo e ricco di numerosi spunti di riflessione linguistica e sociale, in relazione anche al contesto culturale del Trecento, è il capitolo dedicato dallo studioso romano alle “parole assenti” dalla Commedia, come ad esempio “bambino”: le forme ricorrenti in Dante sono “fanciullo”, oppure “fantino” e “fantolino”; così come “ragazzo” all’epoca di Dante voleva dire solo “mozzo di stalle, garzone”. Nel capitolo dedicato alle “parole stravolte” Serianni si sofferma invece sull’inevitabile alterazione, dovuta sempre alla grande fortuna e popolarità della Commedia, dei significati originali del lessico dantesco, attraverso la banalizzazione di un concetto, con la conseguente modifica del dettato originale; spesso, tra l’altro, la ripresa di un verso dantesco ha assunto una connotazione ironica, come nel caso dell’espressione “bel Paese”.

Significative sono poi, per quantità e qualità, le parole a cui Dante per la prima volta dà cittadinanza in italiano, dal momento che la poesia della Commediaè l’esempio di una lingua enciclopedica in grado di rappresentare tutte le sfumature del reale: rientrano in questo campo i latinismi, ovvero gli adattamenti in volgare di parole circolanti nei libri scritti in latino, dall’età classica in poi, che Dante usa per variare la stessa nozione, riservando la forma più aulica alla cantica che più abbonda di forme latineggianti, il Paradiso.

Gli ultimi capitoli del saggio di Luca Serianni sono infine dedicati alla disamina del plurilinguismo e del pluristilismo dantesco, che si nutre di “inclusività” di narrazione e contesti, di “plurivocità”, intesa come compresenza di voci diverse, e di “mimeticità”, che consiste nella riproduzione del discorso altrui: una curiosità rivelataci dall’analisi del prof. Serianniè che nella Commedia il parlato dei personaggi sfiora il 60% totale dei versi.

 

Tanti i docenti presenti a San Benedetto del Tronto per questa preziosa occasione di incontro; tante quindi, anche le domande riguardanti lo studio di Dante a scuola e il rapporto con la tradizione, la difficoltà di proporre ai giovani un testo così complesso come la “Divina Commedia” e di trasmettereal meglio l’esperienza del capolavoro dantesco, con il suo carattere di irripetibilità.“L’opera di Dante”, ha affermato Luca Serianni, “è un contenitore di sentimenti: i classici continuano a parlare nel tempo, dunque parlano ai contemporanei, ma per insegnare bene è importante che ciò che si insegni abbia una ricaduta sul reale”. Per quanto riguarda l’aspetto linguistico, ha conclusolo studioso,“un suggerimento potrebbe essere quello di attualizzare i termini danteschi, altrimenti la comunicazione resta inerte; è utile quindi fare paragoni con l’italiano di oggi, tenendo presente però che non si può insegnare tutto, e che alcuni commenti non servono”. Parola di Dante.

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