MONTORIO AL VOMANO. I SESSANT’ANNI DEL GIORNALISTA MONTORIESE GIORGIO POMPONI DAI CARAIBI AL VOMANO

Giorgio Pomponi

Giorgio Pomponi a 6 anni

I genitori Nando e Loly Pomponi (1)

 

Non ditegli che questa intervista è stata voluta dal sottoscritto per “celebrare” i 60 anni di un cittadino montoriese che da tanti anni vive “altrove”, come vorrebbe scrivere alla voce indirizzo della sua carta di identità.

Giorgio Pomponi, classe 1961, in realtà a Montorio al Vomano non ci è nato, avendo avuti i natali, il 17 aprile, a Valencia, in Venezuela, dove papà Nando era andato subito dopo il servizio militare negli anni ’50, e lì si era innamorato di mamma Loly, che in Venezuela ci era finita come profuga istriana.., «ma ci sono cresciuto, peraltro negli anni più importanti per la mia formazione, e comunque, come amava ripetere mio padre Nando, la famiglia Pomponi è nata nella “Strada di sotto”, e Montorio è stata costruita attorno…».

In realtà, ma non gli diremo neanche questo, ci sarebbe anche il “Colle” a rivendicare le origini di una presunta montoriesità territoriale, ma resta il fatto che il nostro intervistato questa cittadina ce l’ha nel cuore.

«Non potrebbe essere diversamenteracconta perché se è vero, come scrisse l’abruzzese Ennio Flaiano, che “i giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume…”, va da sé che i ricordi più nitidi, specie adesso che l’età avanza, sono quelli legati all’infanzia e all’adolescenza».

Ricordi che, per ragioni di spazio, necessitano di una selezione, che affidiamo al racconto di Giorgio, segno zodiacale dell’Ariete, giornalista per passione prima ancora che per professione…

«Passione ed inclinazione, ma soprattutto la fortuna di una maestra avuta alla scuola elementare di via Giacomo Leopardi, il cui nome era Luigina Rapacchietta, che riconobbe in me il dono della scrittura. Con il senno del poi dico per fortuna, considerato che si è rivelato poi l’unico», aggiunge con un sorriso.

«A quel tempo mio padre era presidente dell’A.S. Montorio, ed io ogni domenica era al campo sportivo a guardare le partite dei nostri amati gialloneri. Così il lunedì, quando la maestra ci faceva scrivere su un quadernone un argomento a piacere, io raccontavo, come fosse la cronaca di un quotidiano, delle partite del Montorio».

Tra lo scrivere e il parlare, però, c’era di mezzo il mare…

«E’ vero a tal punto che quando oggi mi trovo a presentare convegni, eventi, perfino tribune elettorali o serate di gala, davanti ad una platea molto grande, mi chiedo come sia possibile essere arrivato fin qui, partendo da un punto di partenza molto diverso».

Diverso in che senso?

«Ricordo che alle elementari io andavo molto bene a scuola, soprattutto avevo una memoria formidabile e una buona dizione, perché a casa mia, nonostante la sbandierata e orgogliosa montoriesità di mio padre, il dialetto veniva utilizzato poco, essendo mia madre e i miei nonni, che vivevano con noi, istriani. Così successe che alla recita di quinta elementare – era il tempo in cui noi maschietti eravamo in grembiule nero al piano di sotto e le femmine in grembiule bianco al piano di sopra – fui scelto dalla maestra per recitare la lunghissima poesia “La cavalla storna” di Pascoli, peraltro tristissima… In tutte le prove ero stato impeccabile ma, il giorno della recita, salito sul palco, che in realtà era una delle pedane sulle quali si poggiavano a quel tempo le cattedre, feci scena muta. Paralizzato dall’emozione al punto che perfino per scendere dalla pedana e tornare al mio posto dovetti essere accompagnato».

E come hai superato quel “flop”?

«Come detto sono dell’Ariete, e mi riconosco nell’essere orgoglioso, non ostinatamente né stupidamente, ma comunque orgoglioso. E così mi misi a lavorare proprio su quell’aspetto, imparando sia ad accettare l’errore e sia a fare pace con i miei limiti…, non tutti, ma una buona parte di essi».

Ricordi belli, legati ad una Montorio, come abbiamo avuto modo di vedere anche nello speciale dedicato al Mackintosh e alle altre discoteche (su “La Città” del 2 marzo scorso, ndr), che sembra non esserci più.

«E mi crea dolore! Ancora oggi, quando parlo con i miei fratelli (solo Mauro dei quattro fratelli vive ancora a Montorio, nella casa paterna di viale Risorgimento, ndr) parliamo di Montorio come della capitale, e scherzosamente parlo ai miei amici del nostro fiume come “l’Oceano Vomano”. Mi innamoravo dei racconti di mio padre e prima ancora di mamma Angiolina, la nonna paterna, che mi raccontavano delle spaventose piene e della spiaggia, perché tale era, dove andavano a nuotare i montoriesi. Montorio aveva il cinema, due discoteche e il club “il Pipistrello”, era famosa per la qualità delle carni esportate anche in Vaticano e per la genialità dei suoi artigiani, due tra i mobilifici più importanti in Abruzzo, una squadra di calcio che le leggende narrano batte anche il Teramo per 2-0 in un lontano campionato di serie C e calciatori del calibro di “Pucci”, Luigi Catini e poi Giampiero “Cartabianca” Pigliacelli, senza dimenticare “Marcellino”, “Pesciolino” e tanti altri. Era la terra del musicista Maestro Marcacci, di una banda musicale ultracentenaria che veniva invitata dappertutto, delle tradizioni dei bocconotti e dello Stù, della pizzadolce, di Manlio e del suo vocabolario montoriese (un tomo di 20.280 lemmi, 314 voci tecniche e 1.671 idiomatismi), della processione del Carnevale morto, della comicità di “Domenicuccio” Formicone, di Tony Coclite e i suoi Romans e di tante altre cose. Montorio era Montorio, la capitale.., appunto».

La parola nostalgia” deriva dal greco antico. In greco, ritorno” si dice nóstos, mentre Álgos significa sofferenza”. La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio di ritornare. E’ così anche per te?

«La nostalgia è una cosa inevitabile, ma non è obiettiva, perché la vita è andata avanti ed è giusto così. Tuttavia mi piacerebbe che vi fossero dei custodi della storia, della memoria di un posto in cui era bello vivere, mentre oggi quando incontro qualche amico mi sento puntualmente dire che “Montorio non è più quella che ricordi tu”. Io vorrei che fosse migliore, perché vorrebbe dire che siamo stati tutti dei bravi custodi…».

Potremmo parlare delle ore, ma arriviamo ad oggi, a questi tuoi primi 60 anni…

«Ho ritrovato una foto che vorrei tu pubblicassi a corredo di questa intervista che mi hai fatto, è stata scattata nel 1967 il giorno del mio sesto compleanno. Bene, la didascalia di quella foto vorrei dicesse che oggi compio per la decima volta nella vita sei anni!

A parte questo oggi mi divido tra Roma, dove vivo da 15 anni e lavoro nella lega basket femminile, e Roseto, dove in questi mesi di pandemia si concentra gran parte del mio lavoro, che non è più solo basket, scritto o raccontato nel magazine “Sotto Canestro” o su “La Città”, ma anche inerente alla comunicazione politica, ad un nuovo modo di dare ripetizione ai ragazzi delle medie insegnando anche a comunicare con una dizione corretta e la giusta espressione, e ad una passione per la creatività che per troppo tempo ho lasciato chiusa in un cassetto a prendere polvere. E poi ti rivelo un segreto…».

Quale?

«Sogno ancora! Per esempio di scrivere un libro sulle “Storie di O e di H”. Sono racconti nati un anno fa, in pieno lockdown, che ho iniziato a scrivere ricordando di quando, da piccolo, non mi capacitavo del fatto che a scuola ci dicevano, parlando dell’alfabeto, che l’acca era muta. Ed io chiedevo a mamma Loly, com’è possibile che una lettera sia muta? E poi povera H, oltre a descrivercela come “muta”, veniva accostata per esempi negativi quali “non capisci un’acca”! E allora, forse, prima della fine di questo anno scriverò un libro con dentro le “Storie di O e di H…»!

Bene, complimenti, allora potrà essere l’occasione per un’altra piacevole chiacchierata.

 

Pubblicato già su “La Città”, quotidiano di Teramo, del 17 aprile 2021

 

pietro.serrani@tin.it