Cultura & Società, In rilievo, Libri in vetrina

Editoria. “Il prima e il dopo” – un diario letterario collettivo ai tempi dell’isolamento. Prefazione di Daniela Di Fiore

Nessun vincitore, nessun vinto. Tre scopi ben precisi: fare memoria, esprimere se stessi in totale libertà e sostenere il meritorio lavoro ultraquarantennale dell’associazione Agop in un momento così difficile per chi fa volontariato e per i beneficiari di questo volontariato, nello specifico i bambini e i ragazzi con malattie oncologiche ricoverati presso il Policlinico Gemelli di Roma e le loro famiglie. Un solo limite: un massimo (più o meno) di cinquemila battute per la sezione Racconti. Nessuno scopo sotterraneo, se non quelli esplicitati qui sopra e già visibili nel regolamento del Contest, che riportiamo in fondo a questo e-book.

Le opere – tutte di alto valore sia documentale sia letterario – sono state pubblicate nell’ordine in cui ci sono arrivate. È stato bello trovare tra i partecipanti anche tanti nostri autori, che hanno risposto entusiasticamente con ottimi contributi e tra i primi, in ordine di arrivo degli scritti.

Non sappiamo se ci saranno – nel breve, nel medio, nel lungo periodo – altre iniziative simili.

Quel che ora importa è che questo e-book giri in più case possibili, su più reader possibili, per aiutare Agop e far conoscere l’esistenza di quest’associazione e il valore di questa raccolta e di chi vi ha partecipato.

Aiutateci a promuovere con i vostri mezzi questo lavoro collettivo, fosse anche solo pubblicando l’immagine del libro, la sinossi, qualche link o rilanciando i nostri post. Aiutateci a venderlo e a sostenere Agop.

Una volta di più, in conclusione, oltre che a tutti i partecipanti un ringraziamento speciale va a un’amica giunta con noi al quarto libro, Daniela Di Fiore, che di lavoro fa l’insegnante di italiano e storia al Policlinico Gemelli, proprio con i ragazzi a cui è dedicato questo Contest e, di conseguenza, questa raccolta. È merito di Daniela se anni fa abbiamo scoperto questo mondo e, contestualmente, la scuola in ospedale – di cui lei è instancabile alfiere – e se da allora, per come possiamo, contribuiamo attraverso i libri di Daniela al lavoro straordinario dei volontari dell’Agop. Anche per questo pubblichiamo in fondo all’e-book le copertine dei libri di Daniela, che tanto hanno contribuito – e continuano a contribuire – a scopi nobili in questi anni.

Diamo loro una mano, perché è giusto che sia così. Perché deve essere così.

 

Infinito edizioni

Prefazione, di Daniela Di Fiore

 

 

Siamo in una specie di strana guerra. Una strana guerra di logoramento. Così dicono medici, intellettuali e politici nei dibattiti televisivi e sui giornali. Una “guerra” scatenata da un nemico invisibile. Un virus, il Coronavirus, che si sta silenziosamente impadronendo delle nostre vite. Mi viene in mente Giuseppe Ungaretti, poeta che ha partecipato alla prima guerra mondiale, la guerra vera, e ha scritto poesie mentre era in trincea. “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” recita la poesia Soldati, perché ogni essere umano è precario come un soldato in guerra. Perché la nostra stessa esistenza è precaria. La vita cambia e scorre inesorabilmente. Panta rei, tutto passa, dicevano gli antichi greci. Spesso, la vita, però, cambia in peggio. E prenderne atto è un esercizio doloroso ma obbligatorio per capire dove stiamo andando e soprattutto dove vogliamo andare.

Sto scrivendo questo testo nell’aprile del 2020 ed è passato più di un mese da quando il mondo si è fermato, da quando andare a fare la spesa è diventato un lusso che non tutti possono permettersi. Perché c’è chi è inchiodato in un letto di ospedale, attraversato da un minuscolo virus, il Coronavirus, e combatte con la morte. Abbiamo tutti imparato a conoscerlo negli ultimi mesi. Abbiamo imparato a odiarlo. A maledirlo. A fuggirlo. A temerlo. Cerchiamo di fuggire il pensiero della morte perché è umano farlo. Perché a volte l’unica scelta sensata che hai per non protrarre la sofferenza che grava su di te è fuggire. Soltanto chi ha provato l’impotenza assoluta di fronte alla morte per cancro di un adolescente può capire perché fuggire è l’unica scelta che hai.

Sono nove anni che lavoro come insegnante di lettere presso la sezione ospedaliera del Policlinico Gemelli di Roma, la scuola in ospedale che pochi conoscono ma che è un’eccellenza del sistema scolastico italiano. Sono nove anni che vedo ragazzi e ragazze adolescenti reclusi in ospedale mesi e mesi, in alcuni casi anni, ragazzi che si sottopongono a terapie massacranti come la chemioterapia o la radioterapia, perché l’unica colpa che hanno è quella di essersi ammalati di cancro. Non esistono Natale, Pasqua, Ferragosto, feste di compleanno, discoteche, pub e centri commerciali. Non esistono abbracci, baci o coccole se non a piccole dosi e dopo un consulto medico. Non esiste per loro una vita normale se non nella frequenza della scuola in ospedale che li rende “normali”, uguali ai compagni di classe, fortunati loro, che possono andare nella scuola vera, quella fatta di banchi e lavagne. Per loro esiste solo l’isolamento forzato in ospedale.

In nove anni ne ho conosciuti tantissimi di questi ragazzi. Ne ho visti tanti guarire e purtroppo anche tanti morire. Per questo fuggire è l’unica scelta sensata che hai, per non vedere più morire di cancro un adolescente. Però non è successo, non sono fuggita perché, alla fine, i ragazzi che rimanevano in ospedale avevano il diritto di studiare. E io sono rimasta lì a fare il mio dovere: insegnare. Insegnare per dare loro l’opportunità di crearsi un futuro, di sperare, di crederci in quel futuro. E i miei ragazzi hanno sempre studiato, tra una chemio e un ago aspirato, sempre ottimisti, senza abbattersi mai, perché volevano costruirsi il loro futuro. Studiavano sempre con il sorriso sulle labbra, sorrisi che ti insegnano a vivere, a non abbatterti. E in questi giorni di isolamento forzato da Coronavirus, nei quali la vita sembra essere sospesa, nei quali piango davanti la tv, cercando di camuffare la voce quando parlo al telefono coi miei genitori per non farmene accorgere, perché ci sono le bare di Bergamo sui camion dell’esercito, ci sono i medici e gli infermieri con i volti solcati dalle mascherine, ci sono i flashmob che uniscono in un abbraccio tutta Italia, in questi giorni, nei quali oggi è pressoché uguale a ieri, mi vengono in soccorso loro, i miei alunni, il loro isolamento forzato, il loro coraggio, i loro sorrisi. Coraggio e sorrisi che mi danno una forza incredibile, quasi sovraumana, ad andare avanti e che nonostante tutto mi fanno sentire fortunata a stare qui a casa mia e non in un ospedale, come stavano loro e come attualmente si trovano tantissime persone malate di Coronavirus, che lottano tra la vita e la morte senza nemmeno un conforto. È aberrante morire soli e non avere nemmeno il diritto a un funerale. Il Coronavirus li ha portati via senza tener conto degli affetti, spietato, senza alcuna pietà. A vedere certe immagini in Tv mi sono sentita impotente. Così come mi sono sentita impotente di fronte alla morte di una mia alunna di oncologia pediatrica, Michelle, occhi nocciola e un sorriso che non si è tirato indietro nemmeno quando la sua vita ha cambiato rotta.

Michelle è andata via per una polmonite. Non so se sia stata una polmonite “normale” o da Coronavirus. Non lo so e non fa differenza perché resta il fatto che lei non c’è più. Avevo sperato, tutti avevamo sperato, che lo avrebbe sconfitto, il mostro. Ma la sua guerra era impari, maledettamente impari. E così, come silenziosamente era entrata nella mia vita due anni fa, così silenziosamente ne è uscita, perché non ho potuto nemmeno darle un ultimo saluto. Mi è dispiaciuto non poterle portare un fiore, mi è dispiaciuto non poter abbracciare la mamma.

Il Coronavirus non permette di abbracciare una mamma che ha perso l’unica figlia, non permette un funerale nemmeno a una ragazzina di quindici anni. È inumano, è una dimensione in cui non mi riconosco e non mi voglio riconoscere. E penso che nonostante l’isolamento, nonostante le restrizioni, nonostante tutto, sono fortunata perché ci sono adolescenti come lei che, nell’arco della loro vita, hanno conosciuto solo l’isolamento forzato ma necessario in una stanza di ospedale. E mi fa star male l’idea che stanno combattendo da soli, senza la mia presenza, senza il mio contributo, perché anche la scuola in ospedale è chiusa.

Spesso ho detto ai miei alunni “andrà tutto bene”. Queste parole ora risuonano in tutte le case degli italiani. È diventato un hashtag #andratuttobene. Quante volte le ho ripetute, queste parole, in questi nove anni ai miei alunni, in alcuni casi sapendo di mentire.

In queste giornate lunghe, interminabili, nelle quali stiamo soli con noi stessi, con le nostre paure, con la nostra fragilità, quello che più mi angoscia è l’impotenza, la stessa che provo sempre quando perdo uno dei miei studenti. E guardando le immagini delle terapie intensive, che io conosco bene e che non mi hanno mai spaventato, adesso mi assale l’ansia perché penso a mio padre lontano, malato oncologico, che da tre anni combatte contro tre mostri diversi che non si sa per quale assurda mutazione genetica lo tormentano. Penso che vorrei stare con lui, perché tutto questo tempo in cui sono lontana è tempo sottratto a noi due, semplicemente a un padre e una figlia. E penso a mia madre che, benché stia portando da sola sulle sue spalle la malattia di papà da tre anni, è la nostra roccia. Le telefonate e le videochiamate con papà sono frequenti e lui mi rasserena come fanno i miei alunni e mi dice che tutto andrà bene, che tutto passerà e torneremo ad abbracciarci. Un abbraccio infinito con tutte le persone che amo, la mia famiglia, i miei nipoti, le mie amiche e i miei alunni.

I pensieri più bui arrivano la sera, insieme al silenzio, quel silenzio profondo di Roma che sembra una città fantasma. E in questo sterminato silenzio, assordante, misterioso, quando i balconi tacciono perché l’iniziale euforia ha lasciato il posto alla paura, riesco a comprendere la mia pochezza rispetto a tutti quelli che per salvare vite umane stanno mettendo a repentaglio la loro stessa vita. I medici, gli infermieri e tutto il personale che lavora in ospedale. Quando e se usciremo da questa esperienza, dovremmo farne tesoro e cercare e dare un senso a quello che è successo all’intera umanità, pensando a chi ha pagato con la vita e a chi si è trovato in gravi difficoltà, non avendo nemmeno i soldi per mangiare, e dovremmo tutti rimboccarci le maniche e fare e non soltanto dire. Il nostro mondo, quel mondo di cui tutti ci lamentavamo, ora che siamo reclusi nelle nostre case, ci manca e proviamo una nostalgia sempre più crescente per le nostre piccole beghe quotidiane, per i litigi per un parcheggio, per le file al supermercato che adesso facciamo in silenzio nascosti dietro le nostre mascherine.

In questo tempo penso che la condizione che più mi terrorizza è la stessa che hanno vissuto i nostri antenati tra guerre, epidemie, carestie e sono sempre riusciti a rialzarsi, sono sempre riusciti a ricostruire, a rifondare. E ripenso che anche in pieno Umanesimo, Lorenzo dei Medici scriveva “del doman non v’è certezza” e che basta rileggere Boccaccio o Manzoni per capire come tutte le epidemie polverizzino i rapporti umani e sociali. Una delle poche vere certezze che ho è che noi, rispetto ai nostri antenati, abbiamo la scienza e la medicina ad aiutarci, abbiamo i dottori e, benché siano troppi, nessun malato è lasciato solo, nemmeno nelle terapie intensive dove sono intubati e dove medici e infermieri sono l’unico tramite tra le famiglie e i pazienti e sono loro a dover dare le belle e le cattive notizie ai parenti, sono loro a dare un’ultima carezza, un ultimo saluto quando capiscono che il tempo di un loro paziente sta per finire. Sono loro che vediamo in tv stremati, accasciati sulle brandine dei pronto soccorso, con i volti segnati dalle mascherine. E forse è davvero venuto il momento di riflettere, forse questo virus ci sta davvero dicendo: “Fermatevi e riflettete”. Noi che non ci rendiamo conto quanto sia bella la normalità fino a quando un bel giorno qualcuno o qualcosa ce ne priva. Sì, dobbiamo davvero fermarci e riflettere.

Io rifletto da nove anni sul privilegio che ho di avere una vita “normale” e anche se per me nulla sarà più come prima, e non so se sarà un bene o un male, spero solo che questa crisi ci faccia capire che non possiamo più commettere gli errori fatti finora. Stiamo avendo una grande occasione per cambiare il mondo. Non dobbiamo sprecarla. Come ha detto il presidente della Repubblica, lo stesso giorno in cui, in un fuori onda prima di un messaggio alla Nazione, ha ammesso di avere i capelli un po’ in disordine perché nemmeno lui, che è il capo dello Stato, può andare dal barbiere. Un’immagine molto intima di Sergio Mattarella che ci ha fatto capire davvero il senso del periodo storico in cui stiamo vivendo. Siamo tutti sulla stessa barca, il virus non risparmia calciatori, principi, capi di governo, medici e infermieri, gli unici veri eroi di tutta questa storia. Perché per salvare vite umane hanno sacrificato anche la loro stessa vita e se molte persone sono ancora tra noi lo dobbiamo esclusivamente ai nostri sanitari. Quello pagato da medici e infermieri è un tributo altissimo. In questa strana, nuova dimensione di vita, dobbiamo rimanere in casa e dare il nostro contributo, non solo per decreto, ma perché lo dobbiamo a quei medici e quegli infermieri. Lo dobbiamo a quelli che lottano in terapia intensiva, alle persone più fragili e anche a noi stessi.

In questi mesi in cui i balconi si sono animati con canti e balli dimostrando un grande senso di appartenenza, un senso di Paese che ci farà bene, una delle giornate che mi ha emozionato di più è stata quando tutte le radio d’Italia hanno trasmesso l’Inno di Mameli. E non perché ci fossero i Mondiali di calcio ma perché una Nazione, un intero Paese, si è abbracciata virtualmente e si è detta ad alta voce: “Io ci sono. Andrà tutto bene”. Così come ha detto il Papa, “siamo tutti sulla stessa barca”. E l’immagine potente e dolorosa di Papa Bergoglio da solo, sulla gradinata di una piazza San Pietro stranamente vuota, in una Roma piovosa, nella quale si sentivano solo le sirene delle ambulanze in lontananza, durante la benedizione urbi et orbi, è diventata il simbolo della nostra attuale condizione. Porterò sempre con me le sue parole: “Nessuno si salva da solo”. Perché, mai come adesso, sono necessariamente vere. Luis Sepúlveda, lo scrittore cileno con gli occhi da sognatore che è morto proprio di Coronavirus, in uno dei suoi romanzi capolavoro, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, scriveva: “Zorba, volare mi fa paura – stridette Fortunata alzandosi –. Quando succederà io ti sarò accanto – miagolò Zorba leccandole la testa”. E questo è quello che dovremmo fare noi, stare vicino a chi è più fragile e aiutarlo a rialzarsi. “Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva come ricompensa dopo la pioggia”, dirà Zorba alla gabbianella. E noi non dobbiamo fare altro che aspettare il sole dopo la pioggia.

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