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Giulianova. 85 candeline per il collega Benny Manocchia. Auguri maestro

Giulianova. Auguri grande Benny. Non basta un volume di ricordi per descrivere la tua vita avventurosa e piena di sorprese. Come racconti spesso: tanti volumi non è autoconclusivo. Una sfida all’età per ricordare i tanti fatti di una vita, spesso e volentieri si annebbiano. Sei nato in una grande famiglia dove spicca per primo il papà Francesco, scrittore e giornalista di indubbia fama, morto troppo presto per vederti spiccare il volo verso gli Stati Uniti d’America. Voglio ricordare alcuni passaggi della tua prima parte di vita, quella vera, quella della fame e della guerra. In una sorta di neorealismo giuliese che fa della famiglia Manocchia una storia tutta particolare: Pasquale (Lino), Franco, Benito (Benny) ed Omero, quattro figli giuliesi nati sotto sua maestà il Cupolone di San Flaviano, nel cuore del centro storico giuliese. Adesso lascio parlare te, dalle tue memorie un pezzo di storia di Giulianova.

“Intanto non ricordo quando sono nato. Ma qui non sono il solo. Mi raccontò tutto mia madre con descrizioni talvolta dettagliate che esprimevano chiaramente il momento della mia venuta su questa terra. Però quasi sempre finiva affermando che “sarei pronta a farlo di nuovo”. Ma le mamme dicono tutte cosi. Dunque nacqui il 10 maggio 1934. E’ inutile fare conti Walter. Sono vecchio! Ma ancora sulla breccia, come si dice in queste circostanze. Gli anni Trenta-Quaranta a Giulianova passarono molto velocemente per me. Gli altri miei tre fratelli qualche volta giocavano con me, altre volte mi mettevano in un angolo con preghiera da parte dei nostri genitori di stare buoni. E’ duro essere l’ultimo arrivato di quattro figli. Mio padre Francesco (1890-1944 n.d.r.) lasciava ogni sera una caramella sui comodini. In una stanza dormivamo io e Franco, nell’altra Omero e Pasquale (Lino). Spesso facevamo la guerra con i cuscini pieni di piume e quando nostra madre entrava con l’intenzione di porre fine alla battaglia, poverina, rimaneva  semicoperta sotto la pioggia di piume che il nostro cane rincorreva arrabbiatissimo. La guerra vera la sentimmo proprio il 29 febbraio del 1944. Quel giorno c’era il sole e due soldati tedeschi che si aggiravano in pattugliamento con le loro mitragliette, poco dopo sentii il fischio delle bombe che cadevano su Giulianova e poi persi conoscenza (bombardamento del 29 febbraio 1944 degli angloamericani su Giulianova).

Mio padre era a un metro da me e Franco cercava di tirarmi fuori dalle macerie, avevo 9 anni compiuti. Sentii come in uno strano dormiveglia mio fratello che urlava: Benito!! Babbo è morto! Sentii anche mio madre che diceva: fai piano Franco, gli rompi il braccino. In quel preciso istante finì il primo capitolo della mia giovane vita. Dall’ospedale di Giulianova (oggi il vecchio ospedale posto alla fine del Viale dello Splendore), ci trasportarono su un camion vecchio e rumoroso a Mosciano Sant’Angelo, dove avevano frettolosamente mutato la scuola elementare in un ospedale d’emergenza. Ci restai fino al 10 maggio, giorno del mio 10° anno di vita. A bordo di una carretta tornai a Giulianova, la mia famiglia era stata sistemata temporaneamente nell’orfanotrofio delle suore, io, Franco, Omero e la mamma. Mio fratello Pasquale (Lino) era stato fatto prigioniero dai tedeschi all’aereoporto di Mostar in Jugoslavia e deportato in un campo di concentramento in Germania. Eravamo impazienti di rivederlo vivo a Giulianova, non sapeva della morte di papà. Era duro, durissimo trovare pane, anche quando annunciavano che c’era in vendita qualcosa in una panetteria, tutti a correre e poi in fila. Spesso mangiando il pane si avvertiva la sensazione di mordere pasta e sabbia. Mettevano polvere di marmo nell’impasto per dare peso alla pagnotta. Le mamme si facevano in quattro per mettere qualcosa sul tavolo della cucina. Franco si muoveva spesso in cerca di patate e verdura. Una volta era vicino al ponte dell’Annunziata e arrivarono i bombardieri. Incredibilmente tornò a casa con una enorme scheggia di bomba ma senza patate. Noi giuliesi aspettavano la fine della guerra e la fine del Fascismo. Tante volte mi sono chiesto perché c’era tanto odio contro i fascisti. Certo anch’io mi sono lamentato, a modo mio: a 6 anni mi avevano costretto ad indossare la divisa del giovane Balilla e poi marciare insieme con altri nel campo sportivo. Tuttavia la mia giovanile ammirazione per chi chiedeva a viva voce la fine della dittatura subì un colpo allorché’ sentii personalmente un tipo alla fine di aprile del 1945 ( che tra l’altro mi dissero era un nostro parente) dire:”il Cavaliere è morto? Bene, uno di meno”.Da quel momento pensai al diavolo la politica. La scuola fu un giochetto per tre anni. La prima elementare con la maestra Liberatore Beccaceci Dora, la seconda con Minervini, la terza con il mitico Maestro Grue. La quarta venne interrotta con le bombe degli angloamericani iniziate già dal 1943 e fino al 1944. Dopo l’ospedale frequentai quarta e quinta dalle suore con le ragazze del paese che in classe che mi chiedevano di mostrare le ferite mentre pretendevano che io descrivessi quel momento… Che comunque non dimenticherò mai.”

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