Italia

Pompei e dintorni: lezione di archeologia vesuviana, 24 agosto del 79 d.C. – Grande eruzione del Vesuvio

L’Area Geografica

 

 

 

Lungo l’arco di costa tirrenica che va da Capo Miseno alla Punta della Campanella (Golfo di Napoli) sono dislocati alcuni siti archeologici la cui storia è legata alle caratteristiche geologiche del territorio. Fra essi Ercolano, Oplonti, Stabia, Boscoreale e Pompei, sono quelli che per la loro posizione geografica hanno maggiormente risentito delle conseguenze dell’evento disastroso dell’eruzione vesuviana del 24 agosto 79 d. C.

Pozzuoli, Baia e Cuma, di pari interesse, si trovano presso la Baia Domizia, ad Ovest di Napoli.

 

A sud-est del Golfo la penisola sorrentina è costellata da amene cittadine come Vico Equense, Sorrento, Massa Lubrense, S.Agata sui due Golfi, sul versante del Golfo di Napoli; Meta, Praiano, Positano, Amalfi, Maiori, Minori, Vietri sul Mare, dalla parte del Golfo di Salerno.

E sulla montagna, al di sopra di Amalfi, Ravello e Agerola.

 

Ischia, Procida, Capri, non lontane, fanno da sentinelle in mezzo al mare: le prime due di fronte a Capo Miseno; Capri quasi contigua a Massa Lubrense.  Al centro dell’arco di costa domina il Vesuvio.

 

 

 

 

Alle falde del Vesuvio o non distante di là, appunto, si trovavano i centri urbani e le ville suburbane, i cui odierni siti archeologici ci danno segni manifesti della loro posizione e della loro storia, insieme ai materiali di studio (cultura materiale) per la più generale conoscenza dell’Antichità.

Ma nella stessa regione, come s’è detto, ci sono anche altre bellissime ed interessanti località, di pari valore archeologico legato alla conoscenza della storia e della geografia della Campania antica; nonché di altrettanta attrattiva turistica e paesaggistica, di fama mondiale.

 

 

 

L’eruzione del Vesuvio

 

 

In questo paradiso naturale, già apprezzato e frequentato all’epoca dei Romani – e certamente anche prima che l’egemonia romana si estendesse sulla penisola – nell’estate del 79 d.C. successe il « finimondo ».
È quanto racconta Plinio il Giovane (61 d.C. – 112 d.C.), testimone oculare dei fatti, nella seconda delle due lettere inviate a Tacito (lo storico dell’Impero romano). Dice, infatti, lo scrittore romano che “fra quelli che fuggivano da Miseno per mettersi in salvo, ce n’erano molti che si disperavano dicendo che quella era l’ultima notte del mondo”. E Miseno è a più di 20 Km da Ercolano, e a circa 30 Km da Pompei!
Nell’anno 79 d.C. (data della catastrofe pompeiana, secondo una probabile ricostruzione storica), sotto l’imperatore Tito Flavio Vespasiano, figlio di Vespasiano, a Capo Miseno, più esattamente nell’insenatura di Baia, si trovava di stanza la flotta romana al comando del navarca (ammiraglio)  Plinio (il Vecchio), uomo politico e letterato, oltre che valente naturalista. Con lui c’era la sua famiglia, costituita dalla sorella e dal diciottenne figlio di lei.


Il ragazzo, anch’egli Plinio
(il Giovane), in quanto adottato dallo zio, dovette conservare il nome gentilizio della famiglia, a scapito di quello del padre naturale. Successivamente, divenuto a sua volta un importante uomo pubblico, nel 107 (si era frattanto al tempo dell’imperatore Traiano) inviò due lettere a Tacito in cui gli descrive l’eruzione del Vesuvio; e, tra le altre cose, racconta anche come in quella occasione era morto suo zio; nella speranza che Tacito, il quale in quegli anni andava pubblicando le sue Storie, se ne servisse come documentazione.

 

 

 

La situazione degli Scavi

 

Questa in sintesi è la situazione dei moderni scavi archeologici.
A Ercolano è stato portato alla luce solo un sesto dell’intera città antica: la parte rimanente è coperta dal moderno insediamento urbano.

 

A Oplonti (Torre Annunziata) si può visitare la famosissima villa di Poppea insieme ad una casa, non distante, di epoca sannitica; altri ritrovamenti sono ancora custoditi dai proprietari dei terreni in cui sono affiorati i reperti.

A Stabia (Castellammare di Stabia) si possono vedere alcune ville, molto interessanti per la comprensione delle teorie storico-estetiche sulla pittura parietale pompeiana.

 

A Boscoreale, dove sono allo studio alcune residenze, è stato allestito un museo con annesso centro di ricerca e documentazione. E’ interessante sapere che da una villa di Boscoreale provengono i cosiddetti  “Argenti di Pompei” (vasellame d’argento) esposti al museo del Louvre.
A Napoli, oltre ad alcuni resti della città antica, sono raccolte, nel Museo Archeologico Nazionale, la maggior parte delle opere d’arte asportabili, trovate durante le operazioni di scavo nel bacino archeologico.

 

A Pompei, l’antica città è stata quasi completamente dissepolta, tranne alcune Regiones.

 

A Pozzuoli è possibile visitare l’anfiteatro e vedere, in una piazza della città non lontana dal porto, un edificio che serviva da mercato (macellum), chiamato comunemente “serapeo” (erroneamente considerato tempio di Serapide).

 

A Baia ci sono dei ruderi sotto il livello del mare.

 

A Cuma si può visitare il cosiddetto “Antro della Sibilla”, e ruderi della città antica.
Importanti reperti sono stati trovati a Lacco Ameno (Isola d’Ischia), ora visibili nel locale museo. Resti archeologici romani sono presenti perfino a Capri (Villa di Tiberio).

 

 

 

Breve storia di Pompei

Il più antico nucleo della città, è osco (popolazione italica di lingua e cultura indoeuropea insediata nella regione). Verso il VII sec. a.C., per la vicinanza di Napoli e Cuma, Pompei passò sotto l’influenza greca e, successivamente a quella etrusca, così come si alternavano le egemonie delle due potenze, fino alla definitiva sconfitta subita dagli Etruschi del 474 a. C. nelle acque di Cuma, da parte dei Greci. E’ di questo periodo, e chiaramente di tecnica greca, la cinta muraria costruita secondo un preciso piano regolatore che, inglobando il più antico gruppo di case, prevedeva uno sviluppo urbano (programmato) più razionale.
Nel V sec. la città fu conquistata dai Sanniti (popolazione italica), l’antico popolo delle montagne; e, dopo la loro definitiva sconfitta da parte dei Romani (290 a.C.), Pompei fu costretta ad entrare, forse controvoglia, nel sistema delle alleanze che Roma aveva creato con la sua potenza militare. Perciò, durante il Bellum sociale (90 a.C. – 88 a.C.), la guerra di ribellione a Roma delle città italiche alleate (socii), e che Roma aveva rischiato di perdere, essa fu una delle più indomite e bellicose, al punto da subire, a guerra già finita, un lungo assedio da parte dei soldati di Silla.
Come dicono gli storici, Roma in questa occasione vinse la guerra militarmente, ma la perse moralmente, in quanto fu costretta ad estendere, una alla volta, anche alle città ribelli il diritto di cittadinanza (cioè il fatto che i loro cittadini divenivano “cittadini romani” a tutti gli effetti). Quello che era stato il motivo stesso della guerra. Segno che anche a Roma gli equilibri politici, conseguenza del mutamento delle condizioni economiche e sociali, cominciavano a mutare.

 

Così nell’80 a.C., risparmiata dalla distruzione, Pompei divenne “colonia”, cioè abitata da “cittadini romani” (quelli di più antica cittadinanza provenienti da Roma e quelli nuovi, già residenti (precedentemente solo “socii”); e questo, proprio per iniziativa di Cornelio Silla che aveva condotto l’assedio. In omaggio al Dittatore la città venne chiamata Colonia Cornelia Venerea Pompeianorum, vale a dire “Colonia dei Pompeiani devota a (Cornelio) Silla e a Venere”, oppure “La Colonia di Silla devota a Venere dalle parti di Pompei”. Ma la nuova colonia, almeno inizialmente, dovette mantenere quello spirito distaccato e ribelle, se Spartaco, il soldato trace scappato da Capua, fatto schiavo e divenuto gladiatore, messosi poi a capo di una rivolta di schiavi (circa 15 mila) che tormentò l’Italia dal 73 al 71  a.C., si aggirò più volte nei suoi dintorni, cercando riparo sul Vesuvio. Forse sperava di trovare fra gli abitanti di Pompei, se non proprio una complice alleanza, almeno una certa compiacenza per il sostentamento della truppa.

 

Questa in breve la storia di Pompei, che si interrompe bruscamente nel 79 d.C.

 

 

 

La sorte della Città

Il fatto che l’evento catastrofico dell’eruzione vesuviana del 79, interrompendo in un attimo la vita della città ce l’abbia conservata integralmente, ci consente di arricchire questo breve profilo di storia che abbiamo tracciato, con tutta una serie di ricostruzioni di particolari, grazie alla grande mole di documenti della cultura materiale disponibili.

 

Così la vita, interrottasi improvvisamente in un giorno di agosto di circa 2000 anni fa, si rianima e si presenta al nostro intelletto in tutto il suo fervore, quale poteva essere quella di un’opulenta città meridionale, culturalmente e commercialmente dinamica, che traeva la sua ricchezza dalla campagna retrostante, dal mare verso il quale sembrava orientata, dalle attività artigianali (che considerata l’epoca potremmo chiamare anche industriali), e dai traffici commerciali.

 

Poi c’è la vita politica, l’amministrazione pubblica, i cantieri per la ricostruzione del dopo- terremoto del 63; la stessa vita sociale degli abitanti, assurti alla dignità di “cives” (cittadini romani) fin dall’80 a.C.

 

Le strade, il foro, i mercati, i templi, le tante palestre, le terme, l’anfiteatro, i due teatri, i negozi, le botteghe, le officine, le associazioni, le scuole di avviamento ai mestieri, gli alberghi, i ritrovi per l’intrattenimento e per il gioco, le bettole, il lupanare, le ricche case private, quelle lussuose dei benestanti e quelle del popolo attivo, ma anche quelle più modeste: sono tutti spazi aperti alla socializzazione.

È una fitta rete di relazioni sociali che ogni pietra, ogni reperto, utensile o manufatto, ogni segno grafico o pittorico, mostrano al visitatore attento. Possiamo rivivere i momenti dell’attività amministrativa e del governo della cosa pubblica (la candidatura, la propaganda, le elezioni, i lavori pubblici); la pratica della religione tradizionale, e quella dei nuovi culti misterici (che, provenienti dal vicino Oriente e accessibili solo agli iniziati, si diffondevano anche in Italia); l’attività produttiva delle ville suburbane – fattorie -, come la Villa dei Misteri e la Domus Sannitica di Oplonti, o le ville d’ozio (“otium” come studio e meditazione); i ricevimenti nelle grandi case di rappresentanza, come quella del Fauno a Pompei o quella di Poppea ad Oplontis, e quelle eleganti di Stabiae; il lavoro nei laboratori e nelle botteghe; la passione del tifo nell’anfiteatro, le manifestazioni culturali nel teatro e nel piccolo odeon o nelle case delle grandi famiglie; possiamo vedere (con gli occhi della mente) i giovani nelle palestre (che probabilmente servivano anche come scuole di formazione umana e culturale, se non addirittura accademica).
E rivivere la vita intima delle famiglie, il lavoro della padrona e delle serve, l’approvvigionamento dell’acqua, la custodia del fuoco, la conservazione delle derrate, la preparazione del cibo, lo studio, l’educazione dei figli, gli amori, la visita di amici, il saluto dei clienti, ecc. Tutto questo immaginario – che non è affatto gratuito lavoro di fantasia – è fatto di ipotesi verosimili o ricostruzioni documentarie, supportate da oggetti, manufatti, indizi, tutte cose reali, presenti ai nostri occhi e alla nostra comprensione. È questa l’originalità e l’unicità di Pompei.

 

 

 

L’Identificazione del Toponimo Pompei con la Città Ritrovata

 

 

I primi ritrovamenti di reperti pompeiani, quelli di cui si ha notizia, risalgono agli anni 1594-1600, quando si cominciò a scavare un canale di derivazione del fiume Sarno per portare l’acqua a Torre Annunziata, dove si pensava di attrezzare un insediamento industriale.
È del 1748 l’inizio dello scavo di Ercolano, per opera dell’ingegnere Domenico Fontana.
Solo nel 1860 si ha un’organizzazione scientifica degli scavi a Pompei e ad Ercolano, affidati allo storico Giuseppe Fiorelli, che divise la città in zone che designò con i termini di “regiones” (rioni) e “insule” (isolati), il quale escogitò anche la tecnica della colata di gesso per recuperare le forme dei corpi di esseri viventi o di oggetti di legno ed altri materiali organici, che a causa del lungo e costante interramento si erano traformati in sostanze volatili, le quali in seguito allo scavo si dissolvevano al contatto con l’aria.


Persone, animali, ceppi di alberi
abbattuti, porte e finestre, ruote di carri, ecc. sono visibili, oggi, grazie a questa tecnica. I manufatti e le opere d’arte, però, si continuò a trasferirli nei musei; soprattutto nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Negli anni ’30 col prof. Amedeo Maiuri, che provvide alla ricostruzione critica e storica della città, entra la concezione moderna dello scavo archeologico. Opera continuata a partire dagli anni ’60 dal prof. De Franciscis e da lui estesa con rigore scientifico a tutta la geografia della Campania antica.
In seguito, il prof. Giovanni Guzzo, ha dovuto confrontarsi con i problemi della promozione degli studi, della riqualificazione del turismo verso un turismo culturale, e con quello – molto più grave – della tutela, della conservazione e della salvaguardia di un patrimonio archeologico così vario ed esteso, esposto alle intemperie, e di difficile controllo.
Dopo l’eruzione, con le trasformazioni politiche e sociali dell’Impero Romano, il toponimo Pompei aveva perduto la sua identificazione con un preciso punto geografico. Mentre il luogo dove era seppellita l’antica città, a partire dal Medioevo, aveva assunto il nome di “Civita Giuliana” (ancora vivo nella toponomastica locale), che alla fine nessuno più riconosceva come segno della presenza della città sepolta. Solo quando si ebbe la certezza scientifica che quei ruderi scoperti occasionalmente nel 600, appartenevano all’antica città citata dagli autori classici, cioè Pompei, la zona della Civita Giuliana, allora nel territorio di Torre Annunziata, cominciò a essere chiamata “Valle di Pompei”.
In seguito, anche il modesto casale che darà origine all’attuale moderna cittadina, fino alla sua autonomia amministrativa, fu chiamato Pompei. Oggi è una città di circa 20.000 abitanti, con un importante Santuario mariano. E un’attrazione turistica mondiale.

 

 

 

L’Urbanistica della Città Romana

 

 

Iniziamo questa visita immaginaria, con l’aiuto della mappa, privilegiando gli aspetti urbanistici e paesaggistici. Perché solo dopo aver acquisito una visione d’insieme della città e delle sue strade, potremo addentrarci, attraverso altri percorsi, specialistici, tematici o settoriali, nella vasta letteratura su Pompei. Come dire dal generale al particolare.
Solo allora potremo prevedere tutta una serie di soggetti specifici come: architettura, statuaria, pittura parietale, mosaici, utensili, oreficeria, argenti, ambra e vetro, tecniche di costruzione, ecc.
Per spiegare l’origine della forma della città romana si dice che essa riproduca lo schema dei “castra”, l’accampamento militare, con le quattro torri agli angoli del quadrilatero, le porte di accesso al centro dei lati, e all’interno il reticolo di strade (quasi sempre perpendicolari) formato dall’incrocio delle strade: i cardines (asse nord/sud) e i decumani (est/ovest), di cui solo quelli centrali, cioè il cardo maximus e il decumanus maximus, passando per le porte della città, ne permettono l’accesso e la sortita.
Per Pompei questa regola sembra non valere. Qui conta di più la morfologia del terreno, la funzionalità, il rapporto con l’acqua, con la luce, con gli spazi. Una consapevolezza urbanistica “ante litteram”. Qui vediamo che ci sono due “decumani maiores”, invece di uno, il maximus, mentre il vero “cardo” è uno solo. In effetti più che di quartieri, ci troviamo in presenza di sestieri, ognuno con la sua linea di sviluppo, compreso quello formato dalle “Regiones VIII e VII” non bene distinte, in quanto costituiscono il nucleo originario della città, spontaneamente sorto.
La città si estende in lunghezza lungo l’asse Est-Ovest (decumani), e in larghezza da Nord a Sud (cardines).
A Nord, fuori dalla cinta muraria oltre il pomerio (spazio libero, intorno alle mura), c’è l’ager (la campagna) della ridente cittadina: i fertili terreni leggermente in salita che ricoprono probabilmente colate laviche preistoriche. E sullo sfondo la incombente, inconfondibile, magnifica e formidabile, sagoma del Vesuvio. Cosicché la città (e la sua campagna coltivabile) risulta adagiata su di un piano inclinato verso sud, con un’accentuazione della pendenza nella parte più meridionale, all’altezza cioè del complesso dei due teatri, nelle prossimità della porta di Stabia.
Questa posizione inclinata, determinata dalla morfologia del terreno, ha il doppio vantaggio di una maggiore produttività dei terreni (campagna), e quello di un rapido deflusso delle acque piovane (nonché quello di favorire l’afflusso dell’acqua potabile nelle condutture pubbliche, dai serbatoi a monte, verso le fontane sistemate ai più importanti incroci di strade). Come sono in discesa le strade che vanno da nord a sud (i cardines), così sono pianeggianti quelle che vanno da est ad ovest (i decumani). Inoltre risultano spianate tutte le aree destinate alla frequentazione pubblica, come il Foro, il foro triangolare (nella “città vecchia), la zona circostante l’anfiteatro, le terme e le palestre.

 

 

 

Mentre l’anfiteatro si erge dal piano in tutta la sua maestà con un lato appoggiato alla cinta muraria, per i due teatri ci si è serviti proprio della pendenza del terreno (cavea) per la loro costruzione, seguendo la tecnica, usata dai Greci, di appoggiare il teatro sul fianco di una collina. Il felice orientamento verso sud consente di valorizzare (economizzare) luce e calore. Alla destra, per chi guarda la mappa, del Teatro grande, ci sono alcune costruzioni tra cui l’odeon o teatro piccolo, che al contrario dell’altro era coperto, mentre sulla sinistra, al livello della parte alta della cavea, si trova l’ampia spianata del “foro triangolare” da cui si accede – dall’alto – ai vari settori di posti popolari.

Al livello inferiore, invece, sul piano della “orchestra” (lo spazio dei posti riservati alle personalità, ma anche area per i cori e per le danze previste dai testi teatrali) c’è, oltre il limite meridionale del teatro, il grande quadrato erboso (palestra) della caserma dei gladiatori, circondato da un quadriportico e da tutte le pertinenze della palestra (celle o spogliatoi), compresa una piccola struttura termale; questo impianto è stato denominato “caserma dei gladiatori” a causa della grande quantità di armi trovate nelle piccole celle tutt’intorno al porticato. Si suppone che l’impianto, che originariamente doveva servire come supporto al teatro, sia stato utilizzato dai gladiatori dopo il terremoto del 63, finché duravano i lavori di restauro della palestra grande a lato dell’anfiteatro, e che al momento dell’eruzione del vulcano non era stato ancora restituito al suo uso naturale. Incombe sulla palestra un largo scalone che mette in comunicazione i due piani di camminamento, quello superiore del foro triangolare e quello inferiore della palestra stessa.
Sul lato ovest del foro tiangolare si estende la zona pianeggiante delle “Regiones VIII e VII” quasi fuse in un solo sestiere; zona pianeggiante che prosegue poi fino al foro rettangolare (il vero Foro), centro politico e commerciale della città. Sul lato sud, questa parte della città termina con uno strapiombo roccioso di materiale lavico formando un terrazzamento, comodo punto di osservazione verso il mare, e probabile acropoli della primitiva città. Ce lo conferma la presenza di ruderi di un antichissimo tempio dorico che dovette essere un sito archeologico già al tempo dei Romani. Certamente questa zona era preesistente al momento della prima e più importante pianificazione urbana, che dovette tener conto del nucleo di costruzioni già esistenti nelle vicinanze, e della sporgenza di questo sperone di roccia lavica. Infatti, da questo lato manca la cinta muraria.

A partire da questo primitivo insediamento fu tracciato il perimetro della città, e fu costruito il muro di cinta, orientando così i futuri insediamenti verso est e verso nord. Se si considera poi che la tecnica costruttiva della cinta muraria è di tipo greco, e che il perimetro della città sia stato tracciato prima ancora che la città si fosse estesa, non è difficile pensare all’esistenza, già all’epoca, di un preciso “piano regolatore” che inseriva l’esistente in un nuovo progetto ambizioso, che prevedeva aree libere per i futuri insediamenti all’interno della mura. A conferma di questa opinione si aggiunge il fatto che i due “sestieri”, la Regio VIII e la VII, presentano uno schema che sfugge alla regolarità dei reticoli stradali delle altre “regiones”, evidentemente più recenti, o addirittura sviluppatisi a distanza di tempo. Su questo lato il forte dislivello del terreno, ai piedi dello strapiombo di lava, è naturale difesa dalle minacce di attacchi esterni.
Per quanto riguarda le tecniche di costruzione e i materiali utilizzati – e le relative datazioni – ricordando la storia della città e le sue relazioni con i popoli limitrofi, facciamo notare che al mutamento di un’alleanza o di una egemonia, corrisponde anche un cambiamento della vita economica e sociale della città, e, di conseguenza, anche una trasformazione dell’architettura, delle tecniche e dei materiali, nell’attività edilizia e nell’arredo urbanistico.

Non è senza rilievo evidenziare che tutti i luoghi di affluenza di pubblico sono sulle aree marginali rispetto alle zone residenziali, nelle vicinanze di una porta, e circondati da ampi spazi; questo per favorire il naturale deflusso delle masse di cittadini convenuti alle varie manifestazioni pubbliche, sia che fossero diretti in città sia che si allontanassero verso altre città.
L’anfiteatro, è in grado di accogliere 20 mila spettatori (l’intera popolazione della città al tempo del suo massimo splendore). Il teatro grande ne contiene non meno di 5000. Nel Foro se non c’erano particolari fatti di richiamo, come feste religiose, o ingressi trionfali, o arringhe politiche dai rostri, non c’era motivo per grandi assembramenti generali. La frequentazione seguiva gli orari delle abitudini quotidiane e i tempi dei grandi assembramenti (processi, arringhe, comizi, celebrazione di trionfi, ecc.). Vi si accorreva, in genere, in base agli interessi categoriali. Gli appuntamenti erano più frequenti nelle palestre o nelle terme. Tuttavia esso si trova vicino alla Porta Marina e si avvale della vicinanza della “basilica”, una specie di tribunale civile, e del tempio di Apollo (del tipo santuario): edifici questi che per la funzione cui erano destinati avevano, inoltre, ampi spazi interni.

 

 

 

Le Fonti Letterarie Antiche

 

È dunque, quella di Plinio, una testimonianza viva, anche se forse un po’ ridondante e compiaciuta a causa della manifesta intenzione letteraria, sperando egli che il contenuto di queste due lettere sarebbe entrato nelle Storie di Tacito.
Altre testimonianze su Pompei e la zona circostante, e sulla vita dei suoi abitanti, le troviamo in:
Cicerone (106 a.C. – 43 a.C.), nelle Lettere e in alcune Orazioni;

Strabone (64 a.C. – 24 d.C.), geografo greco;

Seneca (4 a.C. – 65 d.C.), che descrive il terremoto del 63 d.C.;

Livio (59 a.C. – 17 d.C.), che parla di uno scontro dei Pompeiani coi Romani, sbarcati nel 310 a.C.
per far preda;

Columella (I sec. d.C.), che ricorda le “salinae Herculeae”;

Plinio, come abbiamo visto;

Tacito (55d.C. – 120 d.C.) che, oltre al terremoto di cui parla anche Seneca, racconta dei disordini
tra Pompeiani e Nocerini dopo uno spettacolo nell’anfiteatro, avvenuti nel 59 d.C.;

Svetonio (70 d.C. – 140 d.C.), che nella vita di Tito ricorda l’eruzione del Vesuvio, e la scomparsa
delle “belle” città della Campania;

Floro (I-II sec. d.C.);

Martino, monaco medievale.

 

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 Per una maggiore comprensione proponiamo all’attenzione del lettore, il significato di alcune
parole latine, utilizzate anche in questo testo.

  • Civitas, da civis (cittadino), é la cittadinanza intesa come collettività di cittadini o come condizione giuridica del civis. Essa è all’origine della parola “città”; e, passando da civilis, anche di “civiltà”.
  • Colonia, dal verbo colo (coltivo, abito, ho un culto), indica la comunità che si trasferisce per abitare, per lavorare la terra, per radicare la tradizione. Il verbo colo (colo,colui,cultum) è alle origini delle parole: inquilino (da: in-cola), coltura e coltivare, cultura e colto, culto.
  • Domus è l’abitazione signorile. “Casa”, invece, è quella dei contadini e dei pastori. Da domus viene duomo (la casa per eccellenza) e domestico (di casa, relativo alla casa).
  • Dominus e domina, sono rispettivamente il padrone di casa (per i servi) e la padrona (per le serve). Dalla radice di domus, attraverso domina viene donna.
  • Dominicus = del padrone. Da essa derivano domenico e domenica.
  • Familia, da famulus (servo, persona di casa), è l’insieme dei figli e dei servi sui quali il dominus, padrone della casa, esercita la sua potestà.
  • Liberi, sono i figli del padrone di casa, nati in casa.
  • Mancipia sono i figli degli schiavi, nati in casa. Dall’espressione “manu capere”, tenere in mano. Era questa la condizione di chi cadeva nelle mani di un cittadino o perché catturato in battaglia, o a causa dei debiti che non riusciva a pagare. Da mancipium viene il verbo emancipare, cioè uscire dalla condizione subalterna di schiavo: riscattarsi dalla schiavitù o ottenere la libertà. Lo schiavo emancipato era detto anche liberto.
  • Villa è la fattoria di campagna, dove frequentemente i proprietari andavano a trascorrere periodi di riposo e di studio (otium).

Luigi Casale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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