Cultura & Società

Il doppio-senso, ovverossia un errore di segmentazione

 

 

 

 

 

Quando mi scrivono, mi dicono: “Caro Luigi” oppure “Caro professore”.

Caro? Ma quando mai !? A meno che non intendano dire che “costo parecchio”.

Ma voi veramente pensate che la parola “caro” significhi ancora qualcosa, oggi, quando viene usata in apertura di uno scritto, o quando si parla con qualcuno?

O non è piuttosto una formula convenzionale per richiamare (o ingraziarsi) l’attenzione del destinatario prima di attivare una conversazione? Come quando, generalmente, diciamo: “Senti!”

Se è così, essa serve per aprire una comunicazione, o meglio, per stabilire in qualche modo il contatto prima di iniziarla. Rientra, perciò, in quella che si chiama “funzione fàtica della lingua”, secondo la classificazione di Roman Jakobson. Aprire e mantenere aperto il contatto.

Si tratta perciò di una convenzione. Appunto!

Non è escluso tuttavia che essa venga usata – ma in quanti casi? – con la sua più naturale connotazione affettiva; nelle comunicazioni confidenziali, tra chi veramente si vuole bene.

Ho conosciuto una persona che probabilmente aveva le stesse mie perplessità nell’accettare l’appellativo di “caro”, quando la apostrofavano. Ma non ne faceva un problema.

Semplicemente ad ogni “caro” rivoltogli, lui rispondeva con garbo, in maniera calcolata e diretta, quasi con “affettato” affetto:  “Pur caro! Per  me  tu sei  purcàro!”. [Purcaro , nella lingua napoletana è la forma corrispondente all’italiano porcaio. L’equivoco – o il doppio-senso – sta  nell’errore di segmentazione].

 

Ma allora che cos’è un errore di segmentazione?

Consideriamo un’espressione linguistica, un pezzo di comunicazione, un testo letterario; o come meglio volete chiamarlo? Noi, parlanti di una data lingua, la sperimentiamo essenzialmente come “suono”, in quanto essa viene prodotta dall’apparato di fonazione umana, o riprodotta da strumenti tecnologici in grado di ripetere voce, musica, rumori e suoni; quindi anche la parlata umana. Noi stessi, parlanti competenti (capaci cioè – secondo la sistemazione teorica che di questi fenomeni ci dà Noam Chomsky – di utilizzare nell’uso della lingua le due parti della grammatica che vanno sotto il nome di morfologia e sintassi) siamo in grado di “inventarla” (crearla in maniera originale) e di “esprimerla” (produrla in un contesto comunicativo). Ebbene quella espressione, prima di formularla e portarla all’esterno, il parlante la pensa. Ma – attenzione! – la pensa sempre in forma di “parole”. Cioè immaginando le parole col loro suono e il loro significato.

Una volta definito, questo nostro testo, sia esso nuovo o già esistente nella memoria o nella letteratura, possiamo anche fissarlo nella scrittura, attraverso dei segni grafici che tutti conosciamo. Almeno quelle persone che sanno leggere e scrivere.

Se adesso riflettiamo solo un attimo, ci rendiamo conto che la nostra espressione, nell’atto della sua produzione o riproduzione fonica, appare come una stringa continua di suoni Solo chi conosce quella data lingua (ne è competente, secondo Chomsky) riesce a distinguere, una per una, tutte le parole di quel testo linguistico. Se no essa continua ad essere una serie ininterrotta di suoni continui. Questa è la segmentazione: la capacità di riconoscere tutte le parole all’interno di una stringa continua (qual è in effetti il nostro modo di parlare). Diversa è la scrittura, in cui le parole appaiono opportunamente segmentate.

 

Forse, all’origine, anche la scrittura dovette apparire non-segmentata.

Quella stessa persona che a chi lo chiamava “caro”, rispondeva col “pur-caro”, insegnante di latino della nostra giovinezza, quando il latino si insegnava già a partire dalla scuola media, senza tanti preamboli ci metteva di fronte ai problemi della lingua creandoci delle situazioni reali. Per esempio, nel caso specifico, per farci capire che cosa fosse la segmentazione, ci chiedeva di tradurgli la seguente frase, (detta a voce): “Lustramilescarpe!”. La quale nella nostra mente si presentava (segmentata) così: “Lùstrami le scarpe !”. Ma, dato il nostro modesto livello di conoscenza della lingua latina, eravamo costretti a rispondergli che non eravamo in grado di tradurre in latino questa espressione italiana. La risposta – scontata! – evidentemente era attesa dall’insegnante, il quale ci richiamava ad una maggiore attenzione col dirci che la frase era un’espressione latina, e pertanto gliela dovevamo tradurre in lingua italiana. Ma come? Allora si verificava lo scompiglio nella classe; finché il buonuomo non ci scriveva, in maniera corretta, cioè opportunamente segmentata, la  frase sulla lavagna: “Lustra, miles, carpe”.

Vi ricordate l’oraziano “Carpe diem !” ? Ebbene le due frasi si corrispondono; e questa volta, al soldato (miles: vocativo) si dava la raccomandazione di “afferrare” (carpe! … imperativo ) i periodi di ferma militare (lustra, [i periodi di 5 anni corrispondente alla ferma di leva]).

In altre parole, il senso della frase nella sua corretta segmentazione era questo: “O soldato, affronta con serenità e con coraggio la ferma militare, i lustri.

 

Voglio concludere con una postilla per aggiungere una ulteriore informazione scientifica. La segmentazione del testo orale, che si rende evidente nella scrittura, è la riprova che anche nella ideazione delle argomentazioni pensate con la mente avviene mediante le singole parole, per cui possiamo dire tranquillamente che del codice-lingua “la parola è “unità” di segno. Cioè è l’elemento unitario portatore di un significato circoscritto. Di questo se ne occupa la semantica.

 

Luigi Casale 

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