Torricella Peligna (CH). CONVERSAZIONE A TRE VOCI SUL FESTIVAL DEDICATO A JOHN FANTE

22 agosto 2014

 

 

Spigolature di Giovanna Di Lello sull’evento letterario da lei creato e che dirige dal 2006

di Tiziana Grassi e Goffredo Palmerini

 

TORRICELLA PELIGNA (Chieti) – Bisogna farla tutta la serpentina di curve che da Casoli arranca in variabile salita fino a Torricella Peligna, incontrando nel corso dell’ascesa verso i contrafforti della Majella maestosa solo il borgo di Gessopalena. E non solo per raggiungere Torricella, posta in posizione elevata sul crinale tra le valli dei fiumi Sangro ed Aventino, che è la mèta del nostro viaggio verso il Festival “Il Dio di mio padre”, che da oggi si dispiega per tre intensi giornate fino a domenica 24 agosto. Quanto anzitutto per conoscere il contesto ambientale, la suggestione, la materna presenza della montagna sacra agli Abruzzesi, l’avara fecondità dei campi, per comprendere quale fosse il proscenio, a cavallo tra Ottocento e Novecento, che vide partire migliaia e migliaia di agricoltori, pastori e artigiani dei paesini arrampicati alla montagna verso il nuovo mondo, in cerca di avvenire, troppo grama la vita in questa landa montana d’Abruzzo nel secolo scorso, insufficiente per tutti la terra strappata alle sassose balze che arrampicano alla montagna Madre. Partirono, fu una diaspora. Ma partirono anche lasciandovi l’anima in pegno, portando con sé un amore radicale e una memoria ancestrale, che nessuna vicenda, bella o brutta in terra d’emigrazione, mai avrebbe potuto attenuare, sopire, cancellare. Un mondo di valori antichi, di tradizioni, di coraggio indomito, di orgoglio e di dignità, insieme a qualche modesto indumento e a qualche attrezzo del mestiere avvolti in bagagli sommari, partirono con loro sui bastimenti dai porti di Napoli o Genova. Così capitò all’alba del Novecento a Nicola Fante, muratore, partito con il suo sogno da Torricella Peligna per l’America, per raggiungere il Colorado.

 

Quella sua terra natia, per quanto egli mai la rivide, giorno e notte era nel suo cuore, nume tutelare della sua storia d’emigrante, ragione stessa del sogno americano di Nick Fante, fatto di progressi e fallimenti, ma sempre sorretto dal sicuro ancoraggio ad una cultura, quantunque povera, eppure certa ed affidabile nei suoi riferimenti morali. Solo così si può spiegare la vita di quest’uomo forte e rude, così come lo ha raccontato in pagine mirabili suo figlio John Fante, egli stesso intriso dei medesimi sentimenti d’amore per la terra d’origine di suo padre, intrigato da quel mondo antico che aveva così fortemente forgiato l’indole paterna. Ecco perché bisogna venire a Torricella Peligna, osservare, interpretare e annusare il luogo, per capire Nick Fante e per meglio comprendere l’humus dove  ha attinto la scrittura di John Fante, uno dei grandi della letteratura italo-americana e mondiale. Sicché diventa naturalmente incongrua pure qualche considerazione che militava per la celebrazione del Festival altrove, in una città d’Abruzzo, che avrebbe potuto assicurare un pubblico più numeroso. Non sarebbe mai potuto essere lo stesso, non avrebbe mai potuto regalare suggestioni, non avrebbe di certo aiutato a comprendere la straordinaria ricchezza della scrittura e della narrativa fantiana, perché qui trova alimento, come dimostra peraltro l’attaccamento che riserva a Torricella Peligna Dan Fante, il secondogenito del grande scrittore e scrittore di successo egli stesso, che ogni anno è presente al Festival dedicato a suo padre.

 

Di questo e di altro parliamo con Giovanna Di Lello, direttore artistico del Festival, con la quale si parla piacevolmente, anche per la condivisione di sensibilità culturali e per altre affinità elettive. Apriamo una conversazione a tre voci con lei, studiosa fantiana, cui si deve l’intuizione di aver fatto nascere proprio a Torricella Peligna un festival letterario dedicato al grande scrittore italoamericano, ormai approdato nella letteratura mondiale. Fu il lusinghiero giudizio di  Charles Bukowski sulla narrativa di John Fante a far riscoprire ed apprezzare il rilevante valore dello scrittore, aprendo la strada alla ripubblicazione delle prime opere e all’uscita postuma di altri scritti di Fante. Non a caso, ricorrendo il ventennale della morte di Bukowski, il Festival dedica un omaggio allo “scrittore maledetto” nella giornata inaugurale. Questa che segue non è propriamente un’intervista, ma una conversazione con Giovanna Di Lello che cerca di raccogliere spigolature, annotazioni ed impressioni. Abbiamo così cercato di sintetizzarle.

 

“Il Dio di mio padre”, il Festival letterario giunto quest’anno alla sua IX edizione che Torricella Peligna – paese d’origine del padre di John Fante, nonché humus letterario di molti suoi romanzi – dedica al celebre scrittore italo-americano si può dire che è una tua creatura. Lo hai ideato e diretto artisticamente sin dall’origine, anche se la sua realizzazione si deve alla determinazione e alla lungimiranza della Municipalità. Giovanna Di Lello, quale la genesi motivazionale e la “cifra” espressiva di questa manifestazione culturale di respiro internazionale, che quest’anno è dedicata al viaggio, agli incontri, al rapporto che l’Abruzzo e Fante hanno con il mondo? E quale la ragione di questo emblematico nome del Festival?

 

Il Festival nasce nel 2006 per volontà del Comune di Torricella Peligna. Mi chiamarono per pensare insieme un omaggio a John Fante, dopo l’uscita del mio documentario sullo scrittore italo-americano.  Loro avevano in mente un premio, ma io proposi un festival letterario di stampo anglosassone, con più eventi, pluritematico, multidisciplinare e conviviale. Essendo il nostro un punto di vista italiano, o meglio torricelliano, il titolo non poteva non tenerne conto, e quindi non potevamo non far riferimento al padre di John Fante, emigrato negli Stati Uniti nel 1901. Ecco dunque “Il Dio di mio padre” (“My Father’s God”), il suggestivo titolo di uno strepitoso scritto dai toni ironici, tutto incentrato sulla figura del padre, che Fante pubblica nel 1975 in una rivista italo-americana e poi inserito nella raccolta “The Wine of Youth”. Il racconto narra le vicende di un muratore italoamericano del Colorado alle prese con un giovane prete di nuova nomina, intenzionato a riportarlo a messa dopo decenni di disinteressamento per il Vangelo.

 

Questo Festival, oltre ad approfondire la vita e l’opera di Fante promuovendone la divulgazione, nel suo carattere interdisciplinare, si pone come il luogo di riflessione sulle intersezioni dell’incontro con mondi e linguaggi espressivi diversi – tra letteratura, cinema e musica – una straordinaria opportunità dove valorizzare il patrimonio culturale degli italiani nel mondo. Come si struttura la tua proposta in questa dialettica agorà del pensiero?

 

Cerco sempre di creare connessioni tra linguaggi e mondi diversi, proprio perché è l’opera di Fante che mi invita a farlo, in quanto parla delle ‘terre di mezzo’ e della ricerca di un posto nel mondo. E i temi da declinare in questo senso sono infiniti. A questo si aggiunge il fatto che Fante, oltre che scrittore, era anche sceneggiatore, e che è un autore molto amato dagli artisti. E’ amato a livello internazionale ed esercita una notevole influenza su musicisti, attori, registi. Per cui, nella strutturazione del programma, mi faccio trasportare dalle suggestioni che mi vengono dalla sua opera, dalla sua biografia e dagli apporti esterni. Come è il caso del cantautore Vinicio Capossela, grande estimatore di Fante, con cui abbiamo presentato diversi reading musicali, oppure con il regista Paolo Virzì, la cui ironia deve molto allo scrittore italo-americano. Al festival sono stati protagonisti anche molti grandi scrittori italo-stranieri, che nelle loro opere hanno affrontato il tema dell’identità, come il lussemburghese Jean Portante e i canadesi Nino Ricci e Mary Di Michele. Quest’anno, per esempio, rifletteremo sull’influenza di Fante nella nuova generazione di scrittori olandesi, con Henk van Straten e Jaap Scholten. Alla tavola rotonda parteciperanno anche l’editore Jasper Henderson e il critico letterario Luca Briasco. Insieme gireranno a Torricella Peligna anche un documentario su Fante.

 

Tra tagliente umorismo tragicomico e lucido racconto autobiografico, l’opera di John Fante – considerato oggi uno degli scrittori americani più importanti della sua generazione, alla stregua di Hemingway, Faulkner e Steinbeck – si colloca tra i capolavori dei narratori moderni, anche grazie allo scrittore Charles Bukowski. La famiglia, l’Abruzzo e il vissuto migratorio sono topoi fondativi nel corpus delle opere di Fante: “Nel tessuto narrativo dei suoi scritti confluisce – così tu infatti scrivi nel Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo, che ti vede tra gli autori – tutta la sua esperienza di emigrato di seconda generazione, in bilico tra due culture, quella italiana di estrazione contadina e quella borghese americana. Egli descrive senza falsi pudori e senza retorica i risvolti psicologici del complesso processo di integrazione vissuto dai figli di immigrati e il rapporto controverso con le sue radici (…)”. A partire dall’impronta del padre Nicola (americanizzato in Nick) e da Torricella Peligna – che hanno esercitato una marcata influenza sull’immaginario di John Fante – parliamo ora di quel “terzo spazio”, come lo definiscono gli psicologi delle migrazioni, che Fante ha sviluppato nei suoi scritti, oscillante tra doppia identità, rifiuto o accettazione del nuovo, origini e legami, senso dell’altrove e dell’appartenenza.

 

Il Dizionario Enciclopedico delle Migrazione Italiane nel Mondo (dizionarioitalianinelmondo@gmail.com), a cui fai riferimento, sarà presentato al festival quest’anno, con te Tiziana Grassi, che ne sei ideatrice e direttore del progetto, e con il professor Mario Cimini, nella sezione Emigrazione che in ogni edizione proponiamo proprio perché Fante è di seconda generazione. Come afferma lo studioso Fred Gardaphe, uno dei massimi esperti di letteratura italo-americana, Fante apporta un notevole contributo alla tradizione italo-americana perché nei suoi romanzi e racconti mette in scena le dinamiche del processo di assimilazione che coinvolge tutti i figli di immigrati. I protagonisti nelle opere di Fante cercano un posto nel mondo, un modo per affermare il proprio Io attraverso la scrittura, facendo i conti con il proprio background che negli anni in cui Fante cresce (gli anni Venti) non coincide con la cultura della classe predominante e ciò lo induce ad una continua riflessione sulla propria identità. Essere di origine italiana per i giovani protagonisti fantiani vuol dire anche provare sentimenti di rabbia, di frustrazione e alienazione, ma anche di compassione che porta all’accettazione. In Fante, credo, la scrittura sia anche uno strumento di resilienza, come avviene per molti figli di immigrati.

 

Uno “spazio” – quello identitario, psicologico e culturale – tra cultura d’origine e d’adozione, che è parte anche del tuo vissuto, tu che sei nata in Italia e cresciuta tra Canada e Svizzera. Quanto ha influito – attraversando consonanze e vertigini – nella tua visione del mondo e nella tua “vicinanza” a John Fante, al quale nel 2003 hai dedicato anche il magnifico documentario biografico “John Fante. Profilo di scrittore”, che ha vinto il Best Documentary Los Angeles Film Awards?

 

Ho amato intensamente l’opera di Fante, sin dalle prime pagine, proprio perché parlava al mio essere emigrata di seconda generazione. Mi ha subito colpito la sua capacità di raccontare con estrema leggerezza i traumi cui l’esperienza dell’emigrazione in qualche modo ti sottopone. Questa capacità ha origine nella sua sapiente ironia, che in Fante è un umorismo tragicomico che lo rende estremamente profondo, pur divertendo. Ci affezioniamo ai suoi personaggi, i quali pur essendo a tratti sgradevoli, ci vengono presentati nella loro disarmante umanità. Inoltre, l’assenza di retorica nello stile di Fante e il suo non essere mai “politicamente corretto” ne fa un autore autentico, che parla di questi temi con grande onesta e modernità.

 

Parliamo di un altro “sguardo”, quello di Dan Fante, uno dei quattro figli di John Fante, anch’egli scrittore. Anche quest’anno Dan sarà ospite del Festival. Come guarda, come si pone verso la figura di un padre, di un uomo, di uno scrittore di così pervasivo rilievo, anche nel suo status di oriundo italo-americano?

 

Dan Fante ha avuto una vita piuttosto difficile, non solo perché vittima dell’abuso di alcool e di altre sostanze, ma anche perché non ha avuto un buon rapporto con il padre. Fante era un uomo difficile, un “macho italiano” come afferma Dan, che certo faceva fatica ad accettare un figlio alla deriva. Nonostante ciò, Fante ha anche rappresentato per Dan un modello letterario, una fonte di ispirazione. Ha iniziato a scrivere in tarda età, dopo aver ritrovato in un garage la Underwood del padre, e a lui ha dedicato diverse sue poesie. Dan adora tornare in Abruzzo, a Torricella Peligna, perché si sente a casa. Sente la presenza del padre e del nonno Nicola. Dan è il classico esempio di oriundo che ha riscoperto in tarda età le sue radici italiane e oggi vive questa sua condizione con serenità e gioia. Il suo ultimo figlio porta un nome italiano, Giovanni Michelangelo.

 

John Fante e questo grande evento letterario internazionale ci danno l’occasione anche per una estensiva riflessione sui nostri connazionali oltreoceano, sui milioni di emigrati, e loro discendenti, che hanno fatto grande l’Italia all’estero, proprio perché il Festival dedica ampio spazio ai talenti abruzzesi affermati a livello internazionale. Tu come fotografi questa ricchissima humanitas da vivificare e valorizzare nei tuoi rapporti, nei tuoi orizzonti, dal passato al presente? C’è, a tuo avviso, un potenziale ancora inespresso?  

 

L’Abruzzo dovrebbe cercare di dialogare maggiormente con i suoi concittadini residenti all’estero, tema peraltro ricorrente negli scritti e nell’assidua opera di relazione dell’amico Goffredo Palmerini. In modo particolare con i giovani talenti che possono diventare una risorsa economica e culturale per la nostra regione. Credo, inoltre, che la storia dell’emigrazione italiana debba essere studiata a scuola, soprattutto in quella dell’obbligo, perché pochi in realtà conoscono questo fenomeno che ha colpito duramente il nostro Paese. Quindi si tratta di parlare di questi temi con un pubblico non specialistico, evitando la retorica, che troppo spesso connota il linguaggio utilizzato in questo settore, e cercando di presentare la condizione del migrante anche come una grande opportunità. Essere di seconda generazione, in bilico tra due culture, può voler dire anche sentirsi più facilmente cittadini del mondo.