Cultura & Società

Torino. Gabriele d’Annunzio e l’enogastronomia della memoria

Il libro di Enrico Di Carlo, Gabriele d’Annunzio e l’enogastronomia della memoria (Verdone, 2013), verrà presentato giovedì 16 maggio, alle ore 18,30, al XXVI Salone Internazionale del Libro di Torino, in occasione dell’inaugurazione dello stand della Regione Abruzzo.

All’incontro saranno presenti l’autore e l’editore Domenico Verdone.

Marco Martellini, autore del disegno di copertina, dedicherà ai presenti alcune caricature a tema dannunziano.

Al termine, lo chef Carmine Cercone, della Taverna Caldora di Pacentro (Aq), offrirà una degustazione di pietanze abruzzesi preferite dal Poeta. Ad addolcire il palato degli ospiti verranno offerti anche il dolce Parrozzo di Luigi D’Amico e il liquore Corfinio di Giulio Barattucci.

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Dalla Presentazione di Lia Giancristofaro:

Enrico Di Carlo è autore di varie opere sul Vate e non certo nuovo al tema di Gabriele d’Annunzio e la gastronomia abruzzese, che ha già trattato nel 2010, in due edizioni. Questa ulteriore e definitiva prova gli permette di approfondire al massimo il ruolo del cibo e delle bevande nell’opera letteraria di D’Annunzio […].

In questa ricerca sul bere e sul mangiare nella produzione dannunziana, condotta da Di Carlo in modo informato e scrupoloso per singoli argomenti, troviamo che i riferimenti sono particolarmente abbondanti nella corrispondenza epistolare tra D’Annunzio e i suoi amici e conoscenti abruzzesi. Questo studio evidenzia insomma che le missive del Vate straripano dal mezzo relazionale della scrittura e si estendono all’oralità e alla vita quotidiana, servendosi del dialetto e di espressioni localistiche: a questo campo di significati D’Annunzio insomma attinge trasfigurando nella letteratura il filo rosso delle sue memorie giovanili […].

D’Annunzio opera riferimenti intellettuali al cibo che inevitabilmente riportano all’ombelico abruzzese della sua infanzia e della sua famiglia. Il grande scrittore con difficoltà incontrava i sapori e le parole che gli piacessero, tanto da lasciarci immaginare il Notturno come espressione definitiva di una sua fame artistica ed esistenziale; il suo digiuno intellettuale tuttavia si scioglie laddove le preziosità, le delicatezze e i virtuosismi descrittivi affidano un ruolo centrale al palato, all’olfatto e all’emozione di talune bevande e vivande consumate insieme, nel segno di una profonda alleanza affettiva ed elettiva.

La mentuccia, il cacio marcetto, il pecorino talmente stagionato e duro da diventare lo strumento del popolare gioco della ruzzola; e poi il brodetto caldo, cotto nel tegame di terra e scarlatto di peperoni; le pizzelle, le uova cucinate in un tegamino di coccio sui carboni ardenti, i maccheroni alla chitarra, l’uovo con la pasta d’acciughe, la porchetta, i maccaroni co‘i ‘vongole, i taralli di S. Biagio e la bottiglia del vino cotto, nonché il montepulciano spillato dalle botti, nel severo digiuno del Vate aprono uno scrigno di sapori mediterranei fugaci e rotondi, col duplice effetto di rinnovare e trasfigurare tanto l’attraente mondo fiduciario della famiglia, quanto l’insoddisfacente e limitativo orizzonte dell’autoctono, che di fatto D’Annunzio volle oltrepassare da tutte le parti […].

I “dolci d’autore” come il Parrozzo di D’Amico – cui il Vate sul Garda si attaccava ogni mattina avvertendo la suggestione di succhiare da esso la parte più genuina della sua regione come l’infante si attacca al seno materno – e i liquori abruzzesi odorosi e sensuali come Aurum e Corfinio si diffusero attraverso l’egemonia che D’Annunzio e i suoi sodali esercitarono in ampia scala grazie al passaggio dall’artigianato all’industria, che di fatto offrì alle masse non solo i testi, ma anche i personaggi, le loro gesta, i loro gusti élitari, distribuiti come guida alla modernità dall’allora nascente standardizzazione.

È singolare, dunque, che il Poeta non fosse né un cuoco provetto, come amava far credere, né particolarmente ghiotto o beone: quanto distribuì di sé alle masse fu un imaginifico “cibo per la mente”: e in questo cibo variopinto e attraente, tra emozioni dolci e amare, nelle pagine seguenti troviamo anche il vero cibo di cui egli si nutriva.

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NOTA DELL’EDITORE

Dopo il successo di D’Annunzio e la gastronomia abruzzese, pubblicato, in due edizioni, nel 2010, si è ritenuto di completare il precedente lavoro occupandoci del rapporto che il Poeta ebbe con il vino. Paradossale – si dirà – considerata la poco o nulla simpatia che il Pescarese aveva nei confronti delle bevande alcoliche in generale. Eppure, ancora una volta, l’autore è riuscito a offrire una chiave di lettura molto particolare, giocando con esternazioni apparentemente esagerate o più intime confessioni o con dichiarazioni di biografi pronti a giurare su tutto e il contrario di tutto. Tra queste “false verità” è interessante scoprire che d’Annunzio non diede il nome al liquore Aurum, così come non fece con il dolce Parrozzo, pur apprezzando e decantando le qualità dei due prodotti abruzzesi.

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