Teramo. Nell’Anno della Fede, la professoressa Modesta Corda, traccerà un profilo di Clemente Rebora, sacerdote rosminiano e tra i poeti più grandi del ‘900, con docufilm di Luigi Boneschi.

Lunedì 13.05.2013 ore 17,45 presso la Sala “Prospettiva Persona”, prossimo appuntamento del Salotto Culturale XII edizione (patrocinio Fondazione Tercas), in Via N. Palma, 33 – Teramo.

Durante la serata, dedicata all’Anno della Fede, la professoressa Modesta Corda, traccerà un profilo di Clemente Rebora, sacerdote rosminiano e tra i poeti più grandi del ‘900, con docufilm di Luigi Boneschi.

Cordiali Saluti

Sandra D’Antonio
CRP
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Approfondimento

Quella di Rebora si snoda attraverso il racconto di un’esistenza inquieta e paradossale, che trascorre dal laicismo al sacerdozio in età matura, dalla passione “irregolare” per la pianista Lidia Natus a quella altrettanto spiazzante per Maria di Nazareth, dopo la conversione (di cui parla nel filmato don Umberto Muratore), ma che appare anche nella continuità di una costante ricerca del vero di cui la poesia si fa strumento indispensabile. A partire da un libro come i Frammenti lirici – prima della Grande Guerra che sconvolgerà anche la vita di Rebora – che aprono la strada alla poesia italiana contemporanea, modello per gli Ossi di seppia di Montale.

Un documentario che mostra alcuni dei luoghi più belli d’Italia dove ancora vive la famiglia rosminiana in cui qualcuno lo ricorda ancora affettuosamente come don Clemente Maria: Stresa, sul lago Maggiore, dove Rebora ebbe il suo primo passaggio vocazionale ed è sepolto accanto ad Antonio Rosmini; Domodossola col Sacro Monte Calvario dove fu novizio ultraquarantenne; la straordinaria Sacra di San Michele nel cui “culmine vertiginosamente santo” a filo di nuvole trascorse alcune delle sue più belle estati, tra i monti che da ragazzo aveva scalato con passione; Rovereto dove si svolse la maggior parte della sua vita sacerdotale.

O città come Milano, dove nacque e conobbe gli anni convulsi di una giovinezza “scapigliata”; o la Novara dove fu “professoruccio filantropo” (e tornano alla luce documenti inediti della sua carriera di insegnante grazie al critico e attuale editore di Rebora con Interlinea, il professor Roberto Cicala).

Il Rebora che per vent’anni dopo il sacerdozio non scrive più, e che riscopre la parola poetica nell’ultimo sconvolgente periodo della malattia che lo porterà a morire a metà anni Cinquanta, testimoniato nel ricordo commosso di fratel Ezio Viola.

Quando sembrava figura dimenticata, che per molta cultura laica sembrava relegata a poesia minore devozionale, che aveva tradito le promesse del grande libro d’esordio, ecco che Rebora in anni recenti torna a riesplodere come figura centrale nella poesia europea, figura di “crisi” di pieno sapore novecentesco, ma che nella scoperta della vocazione religiosa non censura questa drammatica condizione, ma la risolve in un senso più alto e compiuto: perché “santità soltanto compie il canto”.

L’itinerario poetico

La palestra in cui il giovane Rebora affina il proprio stile poetico è la rivista “La Voce”: egli, assieme a Sbarbaro e Jahier, e a narratori quali Boine e Slataper («gente che – avverte Gianfranco Contini – era abbonata al Cahier de la quinzaine, che sentiva l’esigenza religiosa … »), pensa un’arte come testimonianza nuda, autentica, magari polemica, sempre carica di tensione morale ed esistenziale.

li suo stile espressionistico consiste nel deformare il segno linguistico, renderlo aggressivo, incandescente, non temendo di mescolare termini aulici e dialettali per ottenere accordi stridenti e disarmonici. «La carica di violenza deformante con cui egli aggredisce il linguaggio – scrive il Mengaldo – mima il caos peccaminoso della realtà rugosa». Gli fa eco il Gioanola: «La poesia di Rebora appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è e agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».

A Mario Apollonio che si chiede se non sia tutta religiosa la poesia di Rebora (anche quella che precede la conversione), si può decisamente rispondere in maniera affermativa: nei frammenti lirici e ancor più nei Canti anonimi il senso religioso si esprime proprio come “sproporzione” che evolve in “domanda” di totalità, mentre gli attimi che scorrono sono come una morsa funerea che aggredisce brandelli di gioia. Nitidamente il poeta lo ricorderà nel Curriculum vitae:

un lutto orlava ogni mio gioire:

l’infinito anelando, udivo intorno

nel traffico e nel chiasso, un dire furbo:

Quando c’è la salute c’è tutto,

e intendevan le guance paffute,

nel girotondo di questo mondo.

Al cuore, strutturalmente fatto per l’infinito, non basta il buon senso, la salute – epidermico colorito sulle guance -; gli è piuttosto necessario il Senso ultimo, la Salvezza.

Al giovane Rebora proprio questo mancava: «ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno :scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo».

Questo gemito, questa grande tristezza è il carattere fondamentale della vita consapevole di sé, che è – come diceva san Tommaso «desiderio di un bene assente». Quel bene, quell’unico oggetto veramente cercato, sfugge all’umana capacità di «presa». Un individuo è allora tentato di aggrapparsi agli idoli, che però dapprima si offrono a un possesso precario, poi scivolano via – beffardi – tra le dita. La creatura resta sola con il suo “grido”, con «una segreta domanda».

E’ il tema della splendida lirica Sacchi a terra per gli occhi:

Qualunque cosa tu dica o faccia

c’è un grido dentro:

non è per questo, non è per questo!

E così tutto rimanda

a una segreta domanda…

Nell’imminenza di Dio

la vita fa man bassa

sulle riserve caduche,

mentre ciascuno si afferra

a un suo bene che gli grida: addio!

La ragione è esigenza di spiegazione adeguata e totale dell’esistenza. La risposta c’è: l’intima domanda che urge nel cuore ne è la prova; c’è, ma dimora al di là dell’orizzonte da noi misurabile. La ragione al suo vertice si sporge sul «mistero».

Nel secondo libro di Rebora, i Canti anonimi, «si accentua la sua tendenza – come dice ancora l’ottimo Gioanola – a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell’ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto».

Dall’immagine tesa

vigilo l’istante

con imminenza di attesa –

e non aspetto nessuno:

nell’ombra accesa

spio il campanello

che impercettibile spande

un polline di suono –

e non aspetto nessuno:

fra quattro mura

stupefatte di spazio

più che un deserto

non aspetto nessuno:

ma deve venire;

verrà, se resisto,

a sbocciare non visto,

verrà d’improvviso,

quando meno l’avverto:

verrà quasi perdono

di quanto fa morire,

verrà a farmi certo

del suo e mio tesoro,

verrà come ristoro

delle mie e sue pene,

verrà, forse già viene

il suo bisbiglio.

Universalmente riconosciuta come il capolavoro di Rebora, Dall’immagine tesa sta sulla soglia della conversione: scritta nel 1920 e posta in chiusura dei Canti anonimi, questa lirica sigilla la produzione “laica” del Nostro. Poesia dell’attesa, o meglio dell”‘Atteso”, è reputata da Margherita Marchione «la lirica italiana più religiosa e vibrante del nostro tempo»; e Stefano Jacomuzzi la definisce «uno dei più alti canti religiosi dell’arte contemporanea».

La seconda parte della lirica, aperta dall’avversativa «Ma», afferma perentoriamente che l’Ospite atteso «verrà» (sei volte ricorre l’anafora). Fragile è la mia capacità di vigilanza, sempre minacciata dalla distrazione – dice il poeta – ma, «se resisto» nell’attesa, non potrò non assistere al Suo impercettibile «sbocciare» (dunque era Lui – l’Ospite – a spandere «un polline di suono»). La Sua venuta sarà un avvenimento «improvviso», imprevisto (qui come già in Péguy); e porterà il “per-dono”, il grande dono della vittoria sul peccato e sulla morte (qui la concezione è già pienamente cristiana, sebbene la conversione accadrà solo nove anni dopo). Verrà come certezza che c’è un «tesoro», per acquistare il quale vale la pena vendere tutto; dolori e pene permarranno, ma abbracciati da un «ristoro» umanamente impensabile. «Verrà, forse già viene»: «La Presenza è alle soglie e chiede un totale tremante silenzio perché possa essere udito il suo discreto “bisbiglio”» (Jacomuzzi). Testimoniando la propria fede a Eugenio Montale, Rebora – negli ultimi anni di vita – tornerà su quel bisbiglio: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».

Liberamente ispirato da  http://www.rosmini.it/Objects/Pagina.asp?ID=338

http://www.ccrebora.it/Clemente_rebora.htm