L’Aquila. Storie fantastiche dal cratere aquilano PASQUALINO di Luigi Fiammata

13 maggio 2013

Storie fantastiche dal cratere aquilano

PASQUALINO

di Luigi Fiammata

L’AQUILA – L’odore azzurro dei glicini scendeva lungo via del Cardinale, a tratti, rubato dal vento. E sembrava spingere le pedalate di Pasqualino sulla bicicletta; prima in piano, e poi lungo la discesa ripida e sconnessa. Roberta lo guardava correre. Pasqualino sulla bicicletta era un giunco ondeggiante: quando la gamba destra pestava sul pedale, tutto il corpo si spezzava verso sinistra, e solo la testa manteneva un baricentro impossibile a destra, piegata lungo la spalla per drizzarsi improvvisa quando il pedale era affondato. E poi il movimento contrario. E la bicicletta seguiva le onde, oscillando senza equilibrio, sempre sul punto di scivolare e crollare a terra, e sempre invece ritta, come sul crinale di una giostra slabbrata.

Roberta lo guardava, in apprensione, soprattutto nel momento in cui la bicicletta di Pasqualino iniziava la discesa verso il largo del Cardinale, quando, velocemente, non si vedevano più le gambe, prima, poi la schiena, e infine solo la testa restava visibile mentre sembrava negare ostinata ogni possibilità di caduta. Roberta immaginava che Pasqualino arrivasse fino a palazzo Agnifili, lungo la cui facciata erano accatastati da quattro anni decine di enormi sacchi da immondizia neri, putrefatti, e si fermasse frenando nello spiazzo in pendenza, senza continuare a scendere lungo la via che, ad un certo punto, forma un gomito stretto tra case avvolte di crepe e ferro per sfociare infine, come una galleria che non voglia trovare luce, lungo via XX Settembre, poco sopra i monconi amputati della Casa dello Studente.

Lo immaginava, Roberta, perché non aveva mai il coraggio di guardare davvero cosa succedesse a Pasqualino. Sapeva solo che, di tanto in tanto, arrivava Pasqualino in bicicletta, cantando, tra le strade intorno alla piazzetta di San Marciano; lungo via del Seminario, a fianco dell’Istituto Ferrari scarnificato, verso il ponte del Belvedere. Incurante di salite e discese. Cantava. Rivolto ai cortili selvaggi, di sterpi e arbusti liberi, con gli alberi che ormai proiettavano la loro ombra su tutto intorno, oscurando il sole, che invece si scorgeva potente in alto; tra gli angoli delle mura scalpellate da pioggia e neve, nude di intonaco, con la terracotta dei mattoni e delle pianelle spezzate dalla forza della terra, e sotto le tettoie di alluminio, issate sui tubi d’acciaio nero, per una impossibile protezione dal tempo che continuava a scavare.

Roberta, spesso, passeggiava in quell’angolo di città che aveva dimenticato. Stentava a riconoscerne gli angoli e le giunture. I nomi delle vie, che, prima, non serviva conoscere, ora erano una mappa sbiadita che non riusciva a ritrovare il senso dell’orientamento. Alzando gli occhi, Roberta guardava i panni ancora stesi. Calzini e felpe raggrinzite, senza colore, che ancora pendevano sotto le occhiaie vuote delle finestre. O una porta-finestra dai vetri intatti, affacciata sul nulla delle macerie, dentro il silenzio rotto solo dallo stridio delle rondini, alte, libere, ad inseguirsi come vele nere trasportate da un maestrale incostante.

La copertura di un camino, come il tetto di una casa disegnata da bambini, era poggiata in terra, accostata al muro di una casa, e Roberta la guardava, camminando silenziosa sul lato opposto della via, per non disturbare quel riposo; girato l’angolo a destra, arrivava sino a quella casa con il portone serrato da una grossa catena d’acciaio lucente col lucchetto. Sullo stipite, scolorato dal ricordo, era ancora appeso il fiocco rosa di gioia per la nascita di una bimba, cresciuta lontano da lì.

E poi si apriva la chiesa di San Marciano. La fontana transennata e secca, e, in alto, il rosone spezzato. Le colonnine ritorte al fianco del portale d’ingresso lasciavano sulle mani una polvere umida di corrosione, che lasciava l’ombra di una mano, quando Roberta l’appoggiava al legno tarlato della porta chiusa della chiesa. Non c’era nulla da cercare, tra quelle vie. Se non il suono scomparso delle parole che Roberta non era mai riuscita a dire a Martina.

Martina aveva quei grandi occhi blu in cui non si poteva nuotare. Poteva guardarli solo qualche istante, e poi sciogliere lo sguardo Roberta, perché sentiva subito la pelle del volto colma di sangue che correva più velocemente del cuore. E allora, parlava, ad alta voce; inizialmente, il tono era rotto di emozione, e poi più tranquillo. Raccontarle dell’Università, e dei libri che leggeva, riusciva a calmarla, come se, finalmente, potesse guardarsi da fuori, addormentando l’emozione. E allora parlavano insieme, sorridendo e camminando, guardando dritte davanti a sé, attente sul selciato irregolare, allineandosi quando un’auto si incuneava nei loro discorsi sfiorandole col suo odore di petrolio bruciato e prigioniero delle strade strette. Fino ad un bar, o fino alla piazza del mercato, quando la folla delle persone intorno sviava i loro discorsi; li smozzicava in piccole frasi o negli sguardi alle vetrine dei negozi, in cui Roberta cercava di non specchiarsi. Mai. Poi, Martina se ne era andata. Aveva lasciato l’Università ed era partita. Via, senza voltarsi indietro. Per liberarsi della memoria. E Roberta invece ne cercava ancora le orme.

Quella sera, il cielo s’era improvvisamente incupito, e nuvole di ferro sovrastavano ogni spicchio di cielo visibile. Roberta camminava guardando le ortiche cresciute tra le mura delle case e il ciglio della strada, persino sulla legna dei ponteggi;  i suoi passi erano così leggeri che neppure riuscivano a bussare alle porte del silenzio. E cominciarono a cadere piccole gocce di pioggia scura. Dal fondo di via della Zecca, che col suo acciottolato bianco si perdeva dentro una curva chiusa da un muro di pietra spaccata come una trincea di guerra, Roberta sentì una voce. Un suono gutturale che la chiamava, ruvido e sudato. Alzò lo sguardo e vide un uomo. Quasi calvo, con la  barba sporca, biancastra a chiazze sul volto. Alto e curvo, pesante, per il ventre tenuto stretto da una vecchia camicia a quadri, che usciva in parte dalla cintura dei pantaloni sformati. In mano aveva una bottiglia quasi vuota, e l’aria intorno sembrava irrancidirsi.

–          Ehi ! –

Roberta distolse subito gli occhi e iniziò a camminare più velocemente, mentre un nodo sembrava stringerle la gola, conficcandosi nel fiato che ingoiava paura nera. La testa bassa.

Non c’era nessuno intorno. E Roberta però sentiva i passi dell’uomo appesantire le pietre, dietro di sé, ma non voleva voltarsi, come se non guardare bastasse a far scomparire quella presenza. Quando Roberta  rialzò la testa s’accorse che davanti a lei, in direzione opposta, le correva incontro Pasqualino, con la sua bicicletta, veloce, tremolando da un lato all’altro della strada. Pasqualino la superò, cantando, e correva incontro all’uomo, fino ad arrivargli al fianco. Roberta ora guardava.

Pasqualino urtò l’uomo, con una delle sue spalle sghembe dello sforzo di pedalare. L’uomo cadde a terra, travolto. E si allontanò, continuando a cantare. E fu allora, che una lama di luce spezzò le nuvole dal cielo, posandosi sulle spalle di Pasqualino, e sembrava disegnare due grandi ali bianche. Roberta guardava, sorridendo.